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Io lui e Irene 2


di Singleforme
26.03.2024    |    4.786    |    1 8.0
"La toccai finché non vedemmo la porta aprirsi..."
Continua il racconto della storia reale vissuta con Irene (seconda parte)

Il mattino seguente mi svegliai con un nodo allo stomaco. La frase del giorno prima continuava a risuonarmi nella testa: “E adesso a lui chi glielo dice?”
Irene era stata brava nel confondermi, aveva usato il linguaggio della seduzione, illudendomi che per lei fossi un capriccio, ma mi sbagliavo. Il suo unico scopo era lasciare M perché, diciamola tutta, di lui non gliene fregava niente.
A quella domanda avevo risposto con una espressione da ebete: “Dirgli cosa?”
Lei non aveva esitato a mostrarmi la parte più determinata di sé: “Che ora stiamo insieme!”
Lo aveva detto sorridendomi, prima di darmi un bacio lungo e intenso che mi aveva fatto quasi venire voglia di ricominciare. Fu il pensiero del mio amico, nonché suo attuale ragazzo, a farmi rinsavire.
Probabilmente lei aveva scorto la luce strana nei miei occhi perché, per tutto il tragitto, fino alla sua casetta delle vacanze, non avevo detto una sola parola. Solo prima di scendere mi aveva fissato e, dopo aver lanciato uno sguardo fugace verso il balcone ed essere certa che non ci fosse nessuno, mi aveva preso la mano e l’aveva messa tra le sue cosce. I peli erano ancora intrisi dei suoi umori. Poi mi restituì la mano: “fammi sapere quando ci hai parlato”.

Era quello il pensiero che dopo il risveglio mi stava opprimendo. Ero combattuto tra il timore di confessare al mio amico il tradimento della sua ragazza e il costante desiderio che avevo di lei. Ragione o desiderio?
Non gli dissi niente quando lo vidi. Probabilmente ero ancora in tempo per convincere Irene che la nostra era stata una semplice scappatella, che non doveva e non poteva essere interpretata come altro.
Quando andammo a fumare nel suo garage, M smaniava. Dalla sua Camel tirava lunghe boccate e mi fissava desideroso.
“Si può sapere che hai?” domandai divincolandomi da uno dei suoi abbracci.
“Mi sei mancato”, disse avvinghiandosi a me e tentando di nuovo l‘approccio.
In effetti era da qualche mese che non facevamo niente. Lui era solito sfogarsi con Irene e io, fino al giorno prima, al pensiero di loro due insieme.
In quel secondo abbraccio il messaggio era stato chiaro, così come la sua erezione che mi premeva sulla gamba. M non aveva modo bruschi e capivo che quella perdita di controllo era soltanto il suo modo di dirmi che aveva troppa voglia di me. Nella sua goffaggine sapeva essere premuroso e, da quel punto di vista, era molto più persuasivo della sua ragazza. Il pensiero di essere stato con lei a sua insaputa, e sentire quanto fosse eccitato per me, mi fece dimenticare le preoccupazioni che mi avevano oppresso fino a quel momento. Ricambiai il suo bacio che sapeva di nicotina, gli slacciai i pantaloni e mi inginocchiai davanti a lui. Non appena lo presi in mano per sfilarlo dagli slip lo sentii bagnato in cima. Il suo sguardo era sincero e sembrava chiedermi scusa per l’impeto con cui mi aveva lanciato il suo messaggio. Dopo avergli sorriso per rassicurarlo e avergli massaggiato la punta bagnata con il mio pollice, lo presi in bocca, ma non ebbi neanche il tempo di assaporarlo che subito lo riprese in mano per venire. Lo guardai con l’espressione confusa di chi sa di avere fatto del bene, ma è anche cosciente di averlo appena tradito.

Passai giorni, mesi in quella condizione. Ero l’unico a sapere della mia relazione con entrambi, mentre ciascuno di loro era convinto di condividere con me quel solo segreto.
Fin dalle prime settimane successive al mio incontro con Irene, la vita era tornata quella di sempre: giri in macchina, passeggiate lungo la spiaggia e io che venivo scaricato davanti casa perché M e Irene avevano il loro daffare. Non ero geloso di lei e non me ne fregava niente se si allontanavano per scaricarsi. In fondo lui sarebbe stato appagato, non mi avrebbe cercato per diverso tempo e, di conseguenza, meno sensi di colpa.
Il rapporto con Irene, invece, prese una brutta piega. Con lui che ci teneva al guinzaglio non era semplice incontrarci, se non di rado e per brevissimi istanti. Quando lui scendeva dalla sua auto per salire a casa o andare a comprare le sigarette, lei si sporgeva in avanti e iniziava a infilarmi la mano sotto la maglietta.
“Ferma che ci scopre!” continuavo a ripeterle.
“Non sembra che ti dia fastidio”, rispondeva quando per misurare la mia reazione si allungava fino a toccarlo fuori dai pantaloni. E continuava, incurante del pericolo: “E anche se fosse? Mi avresti quando vuoi…”

Io provavo a ribellarmi davanti a tanta sfrontatezza, mostrandomi insofferente e per niente d’accordo con la sua strategia: “Ci vuole pazienza e poi non ti manca niente. Te ne fai due: cosa te ne frega?”
Se avevo imparato a conoscerla, quella risposta l’avrebbe indispettita e l’avrebbe tenuta lontana per un po’. Ma spesso, come si dice, si fanno i conti senza l’oste.
La verità è che eravamo due calamite e non riuscivamo a stare distanti. Trovavamo ogni possibile scusa o pretesto per incontri fugaci.
Quando arrivavamo davanti casa di Irene, di solito ero io che scendevo dall’auto e le tenevo giù il sedile per farla scendere. Il tempo trascorso lì fuori era il mio modo di rispettare la loro privacy, il momento intimo in cui lei faceva qualche moina al suo ragazzo, prima di liquidarlo con un bacio a stampo sulle labbra. Poi mentre scendeva focalizzava la sua attenzione su di me per essere certa che leggessi il suo labiale: “C’è la fai a scaricarlo dopo mangiato?”, lasciandomi intendere che voleva continuare il discorso iniziato in macchina.
Se non fossi stato tanto attratto dalle sue carni l’avrei mandata a quel paese, ma la verità era che lei sapeva essere sensuale, spinta al punto giusto.
Non avremmo mai smesso di cercarci e questo lei lo sapeva.

Quando finalmente ci incontravamo, lei mi baciava con dolcezza, ma non appena le lingue iniziavano a rincorrersi aveva già la mano nelle mie mutande. “Da chi avrà imparato?” pensavo.
M si confidava, ma non era mai sembrato entusiasta dei di Irene, anzi. La descriveva come una ragazza goffa e incapace, che puntava solo a fargli raggiungere l’orgasmo (e con lui non ci voleva granché), e non appena finito si rivestiva. “Neanche mi facesse un favore”, commentava.
Invece con me Irene era diversa, mi baciava con trasporto. Era quasi sempre lei a condurre il gioco e quando scendeva a prendersi cura della mia eccitazione con la sua bocca, sapevo cosa voleva in cambio. Quindi gli palpavo i seni le natiche piene di cellulite, rovistavo tra i suoi peli folti. In macchina era una gran fatica. Ci si muoveva male, specialmente in autunno con i jeans che le stavano stretti. Il nostro sogno era di rifarlo come la prima volta, con il vestito comodo da sollevare, l’aria che entrava dai finestrini e la luce che metteva in risalto i nostri corpi. Proprio perché non ci vedevamo spesso, finivano spesso per discutere su come mettere al corrente M della nostra relazione. Se io provavo temporeggiare, Irene si vendicava fingendo di essersi dimenticata gli occhiali o altri accessori, perfettamente riconoscibili, nelle tasche e nei luoghi più impensabili della mia auto, affinché lui ci scoprisse.
Non mi accorgevo che più andavamo avanti, tanto più la cosa diventava pericolosa.

Se a me il pericolo spaventava, Irene ne sembrava attratta. Era diventata brava a creare situazioni in cui riusciva ad allontanare M con un pretesto, e farci restare soli. In quegli attimi avremmo avuto la possibilità di sfiorarci e concederci piccole effusioni. Farlo a sua insaputa la stimolava e ci rendeva schiavi di momenti che diventavano sempre più ricercati frequenti. Lui non si accorgeva di niente e a noi intrigava ancora di più questa cosa.
La prima volta che la toccai, approfittando di una di queste situazioni, lui era appena sceso. Avevo messo gli occhi su Irene dal momento in cui era salita. La stagione era fresca e sotto il bordo dei suoi jeans erano rispuntate le calze di seta. Anche quella volta lei mi aveva accarezzato il petto abbracciandomi dal sedile posteriore, e invece di scansarla le avevo toccato la caviglia per poi risalire fino al polpaccio che avevo stretto nella mano. La mia erezione era incontenibile. Dopo aver controllato che dalla porta d’ingresso non arrivasse nessuno, si slacciò i pantaloni e mi invitò a metterle la mano nelle mutande. Aveva dovuto faticare non poco per spingere il collant che le arrivava all’ombelico e mostrarmi la sua nuda peluria.
“Tu sei pazza”, le dissi, mentre la palpavo avido di desiderio, senza lasciare inesplorato un solo centimetro di quella fitta vegetazione. La toccai finché non vedemmo la porta aprirsi. Irene era diventata cinica e ci mise un solo attimo a rivestirsi fingendo di tornare a fare le sue cose, come se nulla fosse successo.
Quella volta capimmo cosa volevamo: farlo a sua insaputa, in situazioni estreme.

Il giorno che mi è rimasto più impresso è quello in cui M ci lasciò ad aspettarlo in garage. Irene quel giorno non aveva solo i collant, ma anche un vestito che avrei sollevato comodamente. Lo feci non appena lui finì di chiudersi la serranda alle sue spalle. Ci baciammo avidi e in pochi istanti le sollevai la gonna, le abbassai le calze alle caviglie e simulai una penetrazione. Irene era vergine e non sarebbe stato semplice far accadere tutto lì, ma era ciò che avremmo voluto entrambi.
Presa dalla foga Irene si accovacciò e iniziò a succhiarmi avida, troppo forse, ma la bramosia di entrambi era incontenibile. Era stata la classica “sveltina” che non aveva portato a un orgasmo, ma ci tenne uniti anche poco più tardi, quando segretamente annusavo le mie dita per sentire l’odore di Irne, mentre lui ignaro fumava, cantava a squarciagola la musica incisa qualche tempo prima sulla cassetta che, da sempre, ascoltavamo a ripetizione.
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