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Lui & Lei

Matilde 02-05 - Un parco nazionale di nome Debra


di Alex46
19.02.2019    |    2.452    |    0 8.7
"Attorno a lui la natura si era allontanata, disgregata..."
Una sera Michele si apparta, per circa un’oretta, a scrivere. Sembra stia copiando una lettera. Naturalmente sono curiosa e vorrei sapere che cavolo ha da scrivere e soprattutto a chi. Lui con fare di mistero mi risponde vago, concludendo con un “vedrai a suo tempo”.
Poi il giorno dopo, nella buca delle lettere, trovo una busta a mio nome. Non c’è mittente, ma è la calligrafia di Michele.
L’ho praticamente già aperta ancora prima di essere arrivata al piano e in casa. Sulle prime, non capisco, ma dopo qualche riga realizzo che Michele, giocando sul fatto di essere nativo del segno del Leone, in questa missiva si fa chiamare Leo. E la missiva è stata scritta a suo tempo per Debra. Lei, nativa di Tarvisio, era appena giunta a Milano.

«Con nervosa rassegnazione Leo avrebbe ceduto al sonno, non c’erano neanche più mosche da scacciare con la coda. Quella coda ch’era il terrore degli altri animali. Bastava un suo piccolo movimento e si poteva spiare l’umore del monarca. Prendiamo le code delle vacche: si muovono a ritmo, con uno scopo preciso. Il colpo di coda arriva ciclico e prevedibile quando la mosca si è appena posata. Con la coda delle vacche potremmo misurare il tempo, un pendolo naturale per i pomeriggi d’ozio.
La coda di Leo invece seguiva altri programmi: come un Ufo, quando si muoveva era a scatti senza fretta né direzione, un umore vagante. I meccanismi del suo movimento erano simili a quel fantastico assemblaggio di muscoli e ossa che faceva l’andatura di Leo così particolare. Forza ed elasticità non allenati, spontaneamente selvaggi. Nato così, per incutere ammirazione e timore nelle altre creature di Dio.
Ma poi era successo qualcosa di imprevedibile e spiacevole. Attorno a lui la natura si era allontanata, disgregata. Le sembianze erano impallidite e gli oggetti apparivano amorfi. Perfino le mosche avevano cessato di fare le mosche. C’era abbondanza di animali morti, dappertutto Leo poteva incontrare carogne fresche e si dannava di non aver più nulla da cacciare: sembrava che gli animali preferissero morire un attimo prima di essere cacciati da lui. Morire per morire, meglio farlo soffrire un po’.
Di leonesse neanche parlare: erano tutte state deportate in altri sistemi mentali, così lontani da lui che anche la sua parte più fisica si rifiutava di riconoscerli. Era tutto finito, non rimaneva che terminare lentamente alla ricerca dello sbadiglio più lungo.
Per la sua natura di animale, Leo non poteva chiedersi più di così. Chi si era in realtà allontanato? Lui stesso? E la deportazione della vita cui aveva assistito chi l’aveva provocata? Lui stesso? Non sono domande che un leone può farsi, anche se privato della savana e degli animali alla sua corte.
Perciò se ne stava sdraiato per terra a pancia in giù e aspettava la fine.
Due o tre volte alla settimana si addormentava profondo e allora finalmente quella coscienza così terribile che gli faceva apparire oggetti ed esseri miseri e indegni di essere vissuti si affievoliva. Nel sonno il sole era spento, ma anche quella così fastidiosa torcia sfolgorante che nella veglia lo opprimeva ora si riduceva, si limitava a essere lumicino, luminoso quel tanto che serve per non smarrirsi in un sistema innaturale e in assenza di coordinate.
Prigioniero della sua nobiltà, certe notti gli sembrava che non tutto fosse perduto. Nel sogno sembrava che nelle lontane terre di nord est, là dove sapeva che a volte nevicava così tanto da non poter vedere la capanna accanto, al di là di quelle grandi montagne dove lui un tempo cacciava sereno, là forse il Tempo e l’Abitudine non avevano distrutto quel mondo naturale di cui lui aveva tanto bisogno. Forse là era rimasta un po' di Concentrazione, anche se quella non bastava mai.
Goffo e con qualche chiazza sulla pelliccia (un tempo così florida) si mise in cammino. Non sapeva neppure se lo stava facendo di giorno o di notte. Leo non sapeva se stava sognando o se davvero stava camminando trascinandosi dietro alcune palme, le sole piante che erano riuscite a sopravvivere nel suo mondo.
Per l’occasione si era travestito da uomo. Era costretto a farlo ogni volta che voleva cambiare dimensione. Non riusciva a ingannare tutti, però con qualcuno ci riusciva il necessario per traghettarsi dove voleva. Se lo si osservava attentamente lo si riconosceva, bastonato sì, ma pur sempre leone con aspetto e odore tipici. Nel mondo degli umani sono tutti così pazzi che non si meravigliano neppure se vedono un leone travestito da uomo trascinare delle palme.
Leo non dovette però camminare molto. Alle porte di una grande città che gli sembrava di aver già conosciuto s’imbatté in un cartello nero che agitava leggero i suoi fronzoli biondi al vento di una festa. C’era scritto “Debra National Park”. Sotto, una scritta più piccola ma assai minacciosa recitava, in più lingue, “Every predator will be kille on sight”.
Non sembrava ci fossero cancelli di entrata, né filo spinato né muraglie con cocci di vetro al colmo. Sembrava così bello... Il temerario entrò. La stranezza di quel nuovo mondo lo catturò dopo pochi secondi. La vita di quel luogo era promettente e minacciosa. Sentiva mormorii ed echi di voci melodiose, sembrava che un esercito di sirene invisibili fosse schierato al suo passaggio incerto. Eppure qualcosa doveva esserci là in quelle selve, un mistero da svelare con gli occhi, con il fiuto, con i polpastrelli delle zampe. Un rapace non avrebbe potuto essere più attento. Nel parco nazionale di Debra sembrava ci fosse un gran frizzare di vita, una fresca gioia cosciente di essere lì per caso, cosciente di dover presto farsi da parte e far luogo a una lenta corrente di malinconia; una gioia che correva perché senza pretese di costanza, anzi felice d’esserci e di non esserci, compagna fedele non di un dolore vero ma forse solo di un tranquillante, forse amica insostituibile dello struggente rimpianto per la perdita di un paradiso terrestre, dell’occasione perduta ogni volta che si era intravista o che se ne era potuta assaggiare la fragranza, come se di paradisi terrestri ce ne fossero milioni.
Dunque quella gioia casuale che Leo vedeva nelle belle cose attorno a lui non poteva essere che per lui. Anche un animale poteva comprendere la sincronicità dei due eventi. Così pensava il suo pensiero semplice e questa sicurezza gli teneva compagnia nei suoi vagabondaggi alla ricerca dell’odore di quella terra per nulla promessa, anzi negata da cartelli agghiaccianti.
Due gemme stupende, liquide, erano al centro del parco. Spesso si chiudevano alla vista di Leo in un’immobilità apparente, come ostriche di un mondo irraggiungibile. Leo le fissava, quando erano dischiuse, e ne vedeva la mobilità di fiamma, una contraddittoria e contorta melodia visiva. Talvolta sembrava che le due gemme si interrogassero sulla propria sorte, che chiamassero a raccolta ogni conoscenza, ogni dato a disposizione per elaborare un responso. Di chi è questo cuore, sembrava chiedessero a se stesse le due gemme, cosa vuole questo nostro cuore che dunque, è vero, sarà selvaggio fino alla fine? Le due gemme emettevano segnali come una stazione radio che stia per affondare nell’Atlantico, parole smozzicate scritte su cartelli vistosi come chiamate di soccorso, suonavano “non è così come dici, non sei quello che sembri, il tuo ego è troppo forte, te ne sei innamorato, per quello faresti qualunque cosa pensando sia amore vero...” Le gemme si agitavano impazzite tra le fiamme e i vapori, travolte e anche un po' vendicative, pronte a stracciare i biglietti da visita, a fare terra bruciata ancor prima che guerra si dichiarasse.
Un parco nazionale alloggia specie protette, si disse Leo addolcito, a sua volta però impaurito dalle minacce di espulsione violenta e da quell’agitarsi caotico che intravedeva dietro alle due gemme. Cominciò a pensare che quello era un gran bel posto dove stare, ricco di una magia mai vista nelle sue savane e tra le sue montagne. Un’oasi da proteggere e da difendere dagli intrusi, perché solo lui si sentiva di poterlo fare, solo con il suo tipo di amore si poteva fare. Si sentiva pronto a dare e a subire. Lo voleva con tutte le sue forze. Cercava il modo di tradurre questa volontà in un atto pratico, perché lì non c’era alcuna leonessa in calore, lì c’era una mente che chiedeva disperatamente d’essere amata come tale, con la sua inaffidabilità, la sua mobilità, gli sbalzi, le ripicche, la violenza e la tenerezza che di volta in volta le due gemme erano capaci di comunicare, magari assieme a un enorme bagaglio di conoscenze sulla psiche umana e animale e in un generale quadro di matematica astrologica.
Più o meno come Michelangelo che urla al suo Mosè “perché non parli?”, Leo si ostinava a voler comunicare con Debra, con la differenza non da poco che Debra non era una sua creatura di marmo ma era magnificamente viva come lui, fino a poco prima dormiente come lui e come lui ora dominata dall’ansietà per la prossima devastazione. L’unica speranza che Leo aveva di poter frequentare il parco e di respirare quell’aria così intera era di scavare a grandi zampate dentro al suo proprio cuore e di estrarne il suo aspetto femminile, occulto, debole. Buttare via il travestimento da uomo, apparire per quello che era ma offrire anche, con le mani insanguinate, la sua femminilità a pegno di un amore. Il suo desiderio di figli, di parto, di essere pieno di latte, di fare da mamma a una piccola grande belva. Se qui non ci sono leonesse, lo diventerò io, si disse. Per non essere scacciato dal parco.
Leo accarezzava il muschio morbido e umido che giaceva accanto alle due gemme. Le sue zampe sembravano quelle di un cucciolo, i suoi occhi sembravano dire “sono qui, sono io, proprio io. Non mi aspettavate? Scusate il disturbo, ma qui devo essere padrone (di me)”. Le due gemme, il muschio, i centomila fili d’oro e le sorgenti vicine vibravano come una sola cosa, sembravano impazienti di trasformarsi nella più splendida e fiera leonessa con cui un leone potesse interagire da leone. C’erano degli ostacoli, però.
Erano solo oggetti antichi in vetrina, ma chissà quante cose avevano da raccontare. Le parole sentite fino ad allora erano mormorii delle chiome degli alberi, gli oggetti in esposizione non parlavano, non raccontavano e non dischiudevano il loro mondo. Ma volevano farlo. Leo cominciò a tamburellare con le dita, anche lui impaziente.
Nell’aria cominciava a diffondersi un profumo di dolce cucinato in casa, come se migliaia di torte uscissero in quel momento dal forno. Tra le tante mediterranee, cremose e barocche, ecco le austere crostate ed ecco i tanto amati strudel. E ce n’era uno che si distingueva, Leo si diceva “è quello, quello è lo strudel che ho sempre desiderato, con la pasta appena un po’ crudina”.
L’orario di apertura del parco era quasi fisso, dalle 18 alle 20, a volte fino alle 21. Poi basta, il parco chiude, i visitatori devono tornare a casa. Quella sera centinaia di visitatori bambini erano alla ricerca della propria torta smarrita nell’abbondanza: l’ora in cui le belve si nutrono, l’ora del pasto. Una ragazzina, forse più smarrita di altri, non cercava la sua torta e mormorava che la sua non era più come una volta, più d’uno l’aveva presa, assaggiata, sbocconcellata, leccata, sbattuta. E lei l’aveva lasciato fare, meravigliandosi che quelli non riuscissero a prendersi tutta la sua torta, perché lei voleva darsi tutta e se questo non succedeva era responsabilità loro. Non ce la facevano perché era troppo buona e dopo un po’ sentivano che rischiavano di perdere materia, proporzioni e coordinate in un incanto davvero celestiale e avevano paura. C’era un limite che i codardi non osavano oltrepassare. E allora lei vedeva la sua torta come uno spreco della natura, come un avanzo contaminato e quando quelli, sopraffatti comunque da un desiderio più grande di loro, si riaffacciavano incerti come iene solitarie per sfamarsi ancora con i soavi bocconi, lei ritirava senza pietà gli avanzi.
Poi però non sapeva più a chi riferire le responsabilità di ciò che era successo: se a se stessa e alla sua educazione, a loro, alle stelle che sanno già ogni cosa o a tutti questi attori insieme. E non rimaneva che cucinare un altro strudel, con amore e pazienza, nella convinzione che una Vergine dovesse essere tale per sempre, fino alla prossima contaminazione, fino a perdere la ricetta originale della nonna di cui già non si vedeva neppure più la casa per la troppa neve caduta.
Ma Leo non aveva dubbi: quello era lo Strudel originale, il padre di tutti gli strudel. Senza sapere il perché la ragazzina si fermò nel parco oltre l’orario di chiusura. Forse desiderava ricevere con Leo il Sacramento più nobile, la prima Comunione di una Vergine. Un abendessen da consumarsi in piena comunione di spirito e con tutti e cinque i sensi. E l’ostia era proprio la sua torta, uno strudel che Leo le stava riportando con la bocca e con i denti ma con delicatezza, senza azzannare né sbavarci sopra con ingordigia, come un mastino riporterebbe un bambino sacro al padrone, felice d’averlo ritrovato in mezzo a tanti altri bambini apparentemente uguali.
Quella sera avevano fatto le 22, ed era troppo tardi per altre favole».

Quando giungo all’ultima riga mi metto tranquillamente e serenamente a piangere. I lucciconi li avevo da un po’, le lacrime stavano per sgorgare, ma l’ingordigia e l’impazienza di finire la lettura mi hanno impedito un sano pianto che ora non posso più rimandare.
Dunque questo era l’amore per Debra, dunque lo è ancora. Dunque siamo tutti degli infelici. Però siamo capaci di amare.
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