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Lui & Lei

I colori del piacere


di Blacknoble
08.12.2021    |    2.480    |    2 9.6
"Capii che era sposata, che probabilmente ero parte del suo giorno “libero”, che forse il marito sapeva, o non sapeva..."
La mia mano seguiva la curva della sua schiena arrivando fino alle caviglie. Per poi ritornare su, fino all’attaccatura dei capelli. Era una mano leggera, malgrado la mole. Voleva raccogliere, abbeverarsi di quel piacere che era a fior di pelle, senza fretta, con la delicatezza che si addice alla bellezza.
Lei era stesa sulla pancia. Le braccia abbandonate lungo i fianchi. Sembrava persa, alla deriva, ma non lo era. Era presente, benché altrove, in un luogo dove le sensazioni penetrano l’anima, entrano nel cuore, sconvolgono lo spirito. Guardavo le sue natiche. Trasalenti quando le mie dita sfioravano la curva della sua schiena o l’incavo delle sue gambe. Non avevamo fretta. Il piacere non è un dovere, non ha scadenza.
Le lenzuola erano bianche, cosi bianche che persino il suo pallido corpo ci si stagliava contro lasciando emergere la sensualità delle sue forme. L’eccitazione saliva dentro di me senza limiti. La vista e il tatto, alleati, sortivano in me la sensazione agognata da ogni forma di vita: il desiderio.
La volevo. Lei altrettanto. E quella tensione reciproca alleggiava nell’aria della stanza troppo grande per i nostri corpi, ma esigua per i nostri desideri. In quel vagone della metro in cui ci eravamo conosciuti, c’era tanta gente, ma non c’era nessuno.
Fu quasi imbarazzante; noi due, occhi negli occhi, fissi in una bolla che si era creata dal nulla, alimentata da un leggero tocco, esasperata dal sorriso che eravamo scambiati. Non c’era ragione, eravamo la ragione dei sensi. Ci guardammo e ci comprendemmo. Non era amore. Non era sesso. Era nesso. I suoi capelli corvini le scendevano fino al sedere. Contrastavano con il suo viso bianco. Era truccata. Notai quei dettagli mentre mi accorsi che anche lei mi squadrava dalla testa ai piedi. In un moto involontario, alzai la testa e gonfiai il petto. Come fanno i pavoni con le loro femmine, volevo sfoggiare il meglio di me. Per lei. Pur senza conoscerla.
Ci dividevano tante persone. Ma i nostri occhi non si perdevano mai, anche attraverso i corpi. Durò tre fermate. Lei scese, anch’io. Non era la mia fermata, ma lo era diventata. Scese, ed io con lei.
Non fui io a seguirla. Nemmeno lei me. Ci avviammo insieme. Senza alcun destinazione. Niente ci separava più. Al primo bar, senza parlare, entrammo assieme, ed io ordinai due caffè.
Ci conoscemmo così. Nell’intimità delle nostre anime. In mezzo ad una bolgia, dove eravamo soli: lei ed io.
Ripensavo a tutto questo, mentre il mio desiderio, oltre che il mio pene, crescevano a dismisura occupando tutti gli anfratti del mio cervello. Guardavo la mia mano su di lei. Una mano nera che solcava i confini altrui, scavalcava la frontiera del perbenismo, andava oltre ai valori, annullava le differenze. Mi chinai su di lei portando la mia bocca vicino alla sua schiena. E con la lingua, seguii la linea della sua spina dorsale. Lei rabbrividiva e il mio pene sussultava. La volevo. E il rivolo lucente che scintillava tra le sue cosce mi lasciava intendere che anche lei mi volesse.
La mia bocca si fermò all’attaccatura del suo collo, mentre la mia mano scendeva a cercare l’umido del suo desiderio. Era così bagnata che le lenzuola cominciavano a inumidirsi. Ogni parte del mio corpo era come il mio cazzo, non organi, ma protuberanze del piacere. Lei gemeva e ne sentivo l’eco in me, una brezza che invadeva il mio corpo. Le mie dita si infilarono in lei, per un secondo, il tempo di bagnarle tutte, e di portarmele alla bocca. Volevo conoscere il gusto del piacere, annusare l’odore della meraviglia. Il suo sapore era intenso, come i nostri desideri. Si scostò i capelli, girò la testa e mi baciò. Senza violenza, con una tenerezza incredibile, quasi senza muovere la testa, come se cercassimo il respiro l’un nell’altro. Supino su di lei, le nostre bocche saldate insieme, la penetrai. Sembrava di vogare in un mare poco mosso. Ci muovevamo, non padroni dei nostri corpi, in una sincronia perfetta. Ero in lei, o lei in me. Mi rialzai a metà, poggiando le mie mani sulle lenzuola, per meglio penetrarla. Il suo sedere, che spingeva verso l’alto, ambiva allo stesso scopo. La corrente passava attraverso i nostri corpi facendoci trasalire più volte. Di concerto, accelerammo i nostri movimenti ma senza frenesia. Il contatto delle sue pareti intime era come quel paradiso tanto agognato da chi è in vita. Un luogo dove c’è tutto. Assaporavo ogni singolo attimo in cui penetravo la sua intimità, salendo in modo sicuro verso monti proibiti, vietati... picchi di estasi nemmeno immaginabili.
Pian piano, lei si alzò fino a mettersi carponi. Io dietro di lei. Uno spettacolo unico mi si offriva agli occhi. Entravo in lei, e ne uscivo bianco, di una sostanza magica; il piacere. Era un contrasto nel contrasto. Le nostre pelli, i nostri sessi. Ero nero, imbiancato dal piacere, lei era bianca, annerita dal piacere. Le mie mani si poggiarono sulle sue natiche per allargarle ed attingere ancor di più alla meraviglia. Lei ansimava, io ragliavo.
Dopo un po’, lei si staccò. Si girò, e mi disse: “Vieni”.
L’avrei seguita ovunque. Ma non andammo lontano. Mi prese la mano, e si diresse verso il muro. Me la lasciò, e si appoggiò sulla parete con le due mani offrendomi il suo sedere alzandosi sulla punta dei piedi. E sussurro: “prendimi…”
Entrai in lei con un furore incredibile. In modo cadenzato, andavo e venivo, senza sosta, assestando colpi violenti. La sua vagina era rovente, il mio pene ghiaccio. Eravamo agli antipodi per il colore della nostra pelle, avevamo differenti culture e valori, ma non umanità. In quel momento la parte più selvaggia di noi aveva preso il sopravvento. La ragione aveva perso il suo senso, la meraviglia ne aveva preso il posto.
Venni in lei con la potenza di un ciclone mentre il suo orgasmo stringeva il mio pene con la forza di un uragano. Ma non ebbe fine. Per oltre un quarto d’ora, rimasi in lei, mentre sussultavamo senza sosta, paghi, ma non sazi.
Quando mi vestii, mentre lei si faceva una doccia, mi fu difficile allacciare le scarpe. Le mie mani erano tremanti.
Lei uscì e... Dio quanto era bella con i capelli bagnati e l’accappatoio che le arrivava appena sotto il sedere. Ci sorridemmo.
Ero già quasi davanti all'ascensore quando lei con la porta semiaperta mi chiese:
“Come ti chiami?”.
“Te lo dico quando ci rivediamo”.
Mi era venuto cosi. Senza che ci avessi nemmeno pensato. In modo spontaneo. Sembrava la battuta di un film, una risposta data da un uomo macho che sapeva il fatto suo. In realtà, ero pervaso da un intensa emozione mai vissuta finora. Se solo lei mi avesse richiamato, li, quando ero in procinto di entrare in ascensore, sarei tornato indietro, senza esitare, sei rimasto con lei, crogiolandomi tra le sensazioni, annegando nel piacere. Tornare a casa che non era vicina successe in un lampo. Ero cosi elettrico, sazio, ma ancor eccitato, rivedevo nitidamente le scene del nostro incontro, dagli sguardi agli amplessi. Sentivo brividi sulla schiena al suo ripensare a certi momenti. Ero felice, appagato, sorpreso da tanto piacere.
Una volta a casa, mi addormentai col sorriso sulle labbra.
Mi svegliai col pensiero di lei in testa. Non sapevo il suo nome, la sua età, il suo lavoro. Non avevo informazioni su di lei, tranne dove abitasse. Ma ovviamente, era fuori questione che andassi li cosi. Probabilmente, lei aveva una vita, un suo mondo, i suoi modi, e non avrei potuto intrufolarmi nelle sue cose. Andai su meetic, su tinder, su ogni applicazione di incontri che conoscevo cercando il suo viso tra le migliaia di candidate all’amore. Per due giorni, ero in licenza, e potevo dedicare tempo alla mia ricerca. La sera, sconsolato, tornai al pub dove la conobbi. Non ero un abituato. In realtà, ero un disadatto che ogni volta per sentirsi meno solo andava in giro nei locali a rubare un pò di calore umano. Non ero esattamente in cerca di sesso, ma di compagnia. La vita mi aveva lasciato troppo spazio per la mia anima, il lavoro mi portava tantissimo tempo, ed ero preso nell’ingranaggio di una società che non considera la pace intima ma bensì la ricchezza materiale. Non ci correvo dietro, nemmeno correvo dietro alle donne. Ero semplicemente arreso ad una società a senso unico. Uscivo per sentirmi vivo, non per un altra ragione. Ed ora, una perfetta sconosciuta mi aveva risvegliato da un torpore in cui non sapevo di versare.
Nel locale, cercai di attaccare bottone col barista. Come quasi tutti i baristi, era alla mano, disponibile, complice. Gli chiesi se ricordasse della ragazza con cui ero li il giorno dapprima. Non per qualcosa, ma per via della mia pelle nera, davo facilmente nell’occhio. E lei, era una bella ragazza, e di conseguenza, era difficile non notarci. Feci bingo. Michele, cosi si chiamava il barista mi disse che si chiamava Liegina. Credo che fosse un nome falso. Anche perché come disse Michele, si vedeva una volta al mese. E… con sé, portava via sempre qualcuno di diverso. Probabilmente Michele in questo modo qui voleva indurmi ad abbandonare la mia fissazione. Poiché cosi era. Ero fissato per lei. Mi doveva leggere in faccia, sulla pelle, negli occhi, anche nella voce. Fui imbarazzato di tanta evidenza di interesse, ma tuttavia continuai a chiedergli tutto ciò che sapeva di lei.
Andai via dopo poco avendo la certezza che Liegina non sarebbe venuta. Almeno non quella sera. Una volta a casa, mi versai da bere, accesi la Tv, e cominciai a guardare una serie su Netflix. Ma la testa non c’era, e quindi cominciai a ripensare alla serata di prima… Istintivamente, la mia mano si diresse verso il bozzolo dei miei slip. Ero solo in mutande, e dopo un po, li tolsi. La Tv era accesa ma non la sentivo. Col dorso delle mie dita, accarezzavo il mio membro che reagendo si stava ergendo in mezzo alle cosce. Con la luce, c’erano dei riflessi sulla mia pelle nera, che si alternavano in base ai miei movimenti sulla mia mano e sul mio cazzo. Pensavo mentre mi accarezzavo alla bocca di Liegina, alla sua intimità in cui mi ero perso senza voler ritrovarmi. Dei lunghi brividi mi percorrevano mentre mi accarezzavo e finii per impugnare completamente il mio cazzo imprimendo movimenti dall’alto verso il basso. Non ero frenetico, assaggiavo il piacere di me con me. Nessuno é avverso alla propria sessualità quanto se stessi. Le linee che definiscono il mio corpo, le conoscevo dall’interno, le sentivo all’esterno, nessuno mai avrebbe potuto toccarmi cosi come facevo io con me. La mia mano sposava perfettamente ogni contorno del mio cazzo, faceva pressione laddove doveva, sfiorava le corde giuste, premeva sui punti cruciali. Ero con me, ma dentro di me c’era Liegina, non solo la sua immagine, ne il suo ricordo, ma la sua energia che ancora sentivo. Mentre la mia mano andava e veniva, il mio pensiero ripercorreva il giorno dapprima. Il piacere arrivò a gran fiotti che ricaddero sulle mie cosce nere. Rimase cosi per un pò, guardando i miei fluidi colare su di me ed arrivare fino al divano. Poi, mi pulii, ed andai al letto. Il mio corpo era soddisfatto, ma non il mio cuore, ne la mia anima.
Mi svegliai contento. Felice, con onde di piacere che viaggiavano nel mio corpo. Oggi non avrei lavorato, e quindi, avrei proseguito nella mia ricerca. Questa volta, in modo diverso, sfacciato. Sarei andato a farle la posta, e quando l’avrei vista, avrei finto di essere sorpreso.
Cosi feci. Andai all’angolo del suo palazzo ed aspettai. Aspettai a lungo. Dopo quattro caffé, la vidi. Era appena scesa da un auto con tre bimbi ed un uomo pressapoco della sua età. Li vidi parlare tra di loro, darsi un bacio, e lei spari nell’androne con i piccoli. Capii che era sposata, che probabilmente ero parte del suo giorno “libero”, che forse il marito sapeva, o non sapeva. Ma compresi subito che non sarei mai stato parte della sua normalità, del suo mondo. Non la conoscevo quasi per niente, ma mi ero innamorato di quel niente. In una notte, ove la solitudine aveva preso il sopravvento su di me, avevo incontrato chi era cosi caldo da avvolgermi, e farmi sentire al sicuro. I sogni ed i desideri si possono realizzare, la realtà, spesso, marca il confine in cui finiscono. Era finita.
Due giorni dopo, le mandai una lettera. Sopra, c’era scritto solo il mio nome, ed un punto dopo.
Mustafa.
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