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Lui & Lei

L'esame di maturità


di marcabru
15.07.2021    |    455    |    0 8.0
"Non c’era nemmeno il tempo di lavarsi i denti, né tantomeno di sciacquarsi..."


Il condizionatore era acceso. Il rumore attutito e continuo del motore esterno metteva a dura prova le capacità di concentrazione di Sara. Il libro aperto sul tavolo, la tazza con il succo di frutta alla pera, la vetrina della sala da pranzo in cui si specchiava continuamente, riavviandosi i capelli, le sembravano elementi ostili. L’ansia per l’esame e la paura di non trovare le parole di fronte ai suoi professori e ai suoi compagni, però, le davano le ultime forze di mettersi in testa tutte quelle nozioni di storia, letteratura filosofia e matematica che, probabilmente, le sarebbero servite a poco nel corso della vita. Mentre studiava, mandava giù un sorso di succo, passando la lingua sulle labbra. Chinava la testa con gesto improvviso e provava a ripetere con un filo di voce quello che aveva appena letto, simulando nella sua mente il giorno dell’esame. Ogni tanto dava una sbirciata al cellulare. Muto. Il suo ragazzo stava preparando un esame a medicina, e quando studiava per un esame si isolava dal mondo. La ragazza avrebbe voluto mandargli una foto in una posa da star, come facevano le coetanee, ma rinunciò. Lo trovava stupido. E inutile.
Indossava solo la maglia del pigiama, con le maniche corte, e le mutande a pantaloncino, rosa sbiadito. Ogni tanto si grattava le cosce, come faceva sempre quando era nervosa, arrivando ad affondare le dita fino alle anche. Sotto il cotone liso. Quando alzò lo sguardo e vide che erano le 10.30 la sua attenzione verso le pagine da studiare venne meno. Si alzò rapidamente dalla sedia e in un attimo si sfilò le mutande. Corse in camera, aprì il cassettone del comò, prese un paio di slip puliti e li indossò. Il suo sguardo si diresse poi ai pantaloncini piegati sulla sedia, ma prima di metterli si fermò qualche secondo, di fronte al grande specchio davanti al letto. Su di esso, dalla parete opposta, si rifletteva il poster del volto di Ribelle, la principessa dai folti capelli rossi. Sara si guardò il culo stretto negli slip nuovi. Aveva un brufolo sulla natica destra. Si avvicinò allo specchio, provò a toccare il foruncolo, sentì bruciare. Trasalì come se si fosse svegliata da una trance. Afferrò i pantaloncini, ma prima di indossarli, con un gesto improvviso si tolse le mutandine, lanciandole sul letto. Per un momento incrociò lo sguardo immobile di Ribelle, cui ammiccò. Si mise una maglietta con sopra l’immagine punk della Sirenetta e, quasi senza respirare, si diresse alla porta di casa. Per un momento valutò la possibilità di mettere il reggiseno, ma poi pensò che era già tardi. Non c’era nemmeno il tempo di lavarsi i denti, né tantomeno di sciacquarsi. Usci così, senza neppure farsi una doccia. Aveva ancora addosso l’odore delle lenzuola, che la madre, prima di partire, le aveva lasciato, raccomandandosi di cambiarle almeno ogni tre giorni. Le aveva lasciato anche vari barattoli, nel frigo, con i cibi pronti, perché a Sara non piaceva cucinare. E forse non era neppure capace.
La ragazza fece le scale sorridendo, sembrava in un mondo tutto suo, fatto di fantasie fumose e personaggi dei cartoni animati. Appena arrivata nell’androne del palazzo, cacciò la testa fuori, ma senza uscire. Sembrava un topino che controlla la presenza dei gatti dal foro della tana. Come previsto, vide l’ingegnere uscire dal bar di fronte al palazzo. Benché fosse già tarda mattinata, l’ingegner Terenzoni, tecnico del comune e pittore discretamente noto in città, aveva appena finito di far colazione, come tutte le mattine, e si dirigeva verso il municipio, in cui entrava, puntualmente, sabati compresi, alle 11.00. Era vestito con un completo blu, una camicia bianca e la cravatta regimental. Una tenuta che contrastava con il caldo torrido della mattinata. Di solito, trascorreva tra progetti urbanistici e discussioni con gli amministratori quasi sei ore, e alle 17, si ridirigeva verso casa, dove viveva con un grosso cane maremmano, una moglie sempre impegnata in estenuanti sedute di yoga, e tre figlie femmine di 12, 15 e 17 anni. Era un dramma per lui tenerle a bada. L’adolescenza delle figlie gli stava togliendo ogni forza e gli aveva fatto quasi perdere del tutto la voglia di dipingere, unica attività che gli dava soddisfazioni maggiori del lavoro in comune. Per lui dipingere significava innanzitutto togliersi di dosso i vestiti compassati del lavoro e immergersi in un mondo nuovo, informale, creativo. Lontano da progetti, politici di paese e geometrie quotidiane. Tutto ciò Sara lo sapeva, perché in primo luogo frequentava la stessa scuola della figlia maggiore, che conosceva di vista e con cui qualche volta aveva attaccato discorso. La figlia diciassettenne dell’ingegnere frequentava la quarta liceo. Erano praticamente coetanee, ma Sara aveva cominciato le scuole a cinque anni, pertanto, era in quinta. Ad un passo dall’esame di maturità. Aveva raccolto informazioni sull’ingegnere in maniera quasi maniacale, chiedendo al barista e a tutti i conoscenti di lui, inventando non si sa quali scuse. Aveva composto un puzzle, giorno dopo giorno, attraverso una ricerca che durava da almeno tre mesi. Una così spasmodica indagine sarebbe apparsa sicuramente irrazionale a chiunque. La ragazza faticava anche a spiegarlo a sé stessa. Lo aveva semplicemente visto, un giorno a scuola, quando era venuto a prendere la figlia e le era entrato in testa. Aveva anche provato a cercare su internet come fosse possibile che una ragazza adolescente fosse attratta in quel modo da un adulto, piuttosto fuori forma, stempiato e con una vita ordinaria. Aveva letto di questioni psicologiche profonde, mancanza del padre, complesso di edipo e altre cazzate del genere, ma una vera spiegazione non l’aveva trovata. Nemmeno gliene importava. De resto lei un padre ce l’aveva, anche se era un fantasma in famiglia. Per lei, era probabilmente un mettersi alla prova, provare a ordire un piano e portarlo a compimento. Fatto sta che bastava vederlo uscire dal bar per provocargli una eccitazione improvvisa, che non raggiungeva con i suoi coetanei. Non era semplice attrazione sessuale. O una venerazione dell’esperienza dell’adulto. Era una sensazione di estasi, che era in grado di distorcere i suoi pensieri fino a farli sprofondare in zone d’ombra, che a tratti assumevano contorni di marcio. La chiamava depravazione. Almeno, secondo la sua idea di depravazione, formata su letture in internet, filmetti porno guardati con i compagni e compagne di scuola ed elaborazioni mentali del tutto personali. Una volta due compagni, dopo la visione di un porno a casa di un’amica comune, l’avevano tanto incalzata da convincerla a togliersi la maglietta e a mostrare le tette. Erano rimasti allibiti dai capezzoli, lunghissimi e rossi, al vertice di un seno piccolo. Lei li teneva tra le dita e li sfregava, come fosse un gesto del tutto naturale. Avevano anche insistentemente richiesto che pomiciasse con l’amica. E lo avevano fatto, esagerando l’atto senza tenere le labbra appiccicate. Di fronte alla scena e alla reale eccitazione di Sara, uno dei due aveva anche allungato le mani, infilandogliele nei pantaloni. Era arrivato sentire l’umido della fica. Convinto di essersi spinto troppo avanti, il ragazzo ritrasse la mano, ma Sara la trattenne, suggerendo implicitamente di continuare. La scena -le due amiche che pomiciavano, il ragazzo con le mani nei pantaloni di Sara e quest’ultima che ansimava fortissimo- si svolgeva di fronte all’altro amico stupefatto. Immobile. E Sara ci stava. Senza batter ciglio. Era la sua depravazione. Non la rendeva più felice, le dava semplicemente una sensazione di abbandono. Scacciava preoccupazioni e ansie. Annullava i lati oscuri del futuro.
La ragazza si mise a seguire l’ingegnere lungo tutta la strada che portava agli uffici comunali, per poi imboccare un vicolo chiuso al traffico e, a dire il vero, mal frequentato, che le avrebbe permesso di incrociare l’ingegnere proprio prima del municipio. Era importante arrivare in tempo, perché aveva deciso, perentoriamente, che quello sarebbe stato il giorno giusto. I suoi piani non potevano naufragare per un piccolissimo ritardo. Come previsto, incrociò l’ingegnere. Si stampò in faccia un sorriso affettato e lo salutò con la mano aperta. Un ciao infantile, ma che evidentemente colpì nel segno. L’ingegnere si fermò, mise a fuoco la figura della ragazza, sorrise a sua volta e ricambiò il saluto. Erano ormai venti giorni che Sara faceva in modo di intercettare Terenzoni e lo salutava simulando timidezza e tranquillità. Non si poneva neppure il problema che lui potesse intuire che quegli incontri non erano fortuiti. A differenza delle altre volte, però, Sara attaccò discorso:
-Buongiorno ingegnere, si ricorda di me? Sono Sara, la compagna di scuola di sua figlia grande.
- Eh, si, credo. Mi ricordo di averti vista già altre volte, al bar dove faccio colazione, giusto?
- Si, abito proprio lì di fronte.
- bene! Spero che a scuola vada tutto bene. Dirò a mia figlia che ti ho incontrato.
Sara immaginava la scena. La figlia che cadeva dalle nuvole, e poco dopo diceva: - Ah si quella sciroccata di 5D. Ma non siamo compagne, neppure ci conosciamo bene.
Ritornò in sé. Puntò gli occhi sul Terenzoni e improvvisò:
-Senta, ingegnere. Mi scusi se posso risultare inopportuna, ma…dovrei chiederle un favore. Per i miei genitori. Sono partiti, sono sola in casa, non so bene che fare in queste circostanze. Mi hanno detto di svolgere per loro una pratica in comune e io…non so cosa devo fare. So che lei lavora in municipio.
-Certo. Dimmi pure -disse interessato l’ingegnere.
Devo consegnare certi moduli per un permesso di avvio lavori, ma non so bene quali e dove. Potrebbe, quando rientra stasera, passare a casa mia? non ho con me i fogli e vorrei mostrarglieli.
A quel punto l’ingegnere cominciò a dar segni di non comprendere più la situazione. Fu come colpito da un pallone sulla faccia. Fece un passo indietro e contrasse i muscoli della faccia. Il suo naso adunco sembrava ancora più pronunciato. Sara capì che l’ingegnere aveva intuito che la richiesta fosse anomala, artefatta. Probabilmente cominciava a sospettare uno scherzo, o qualcosa di peggio. Comunque, inaspettatamente, l’ingegnere rassicurò la ragazza che sarebbe passato, e si fece dare l’indirizzo.
Missione compiuta, pensò Sara. Forse lui l’aveva solo liquidata, senza far troppe domande, e non sarebbe mai andato a casa, ma l’importante era averci provato. La risposta era stata positiva e questo bastava. Di nuovo il sorrisone comparve sul volto di Sara, mentre stava letteralmente correndo a casa. Aveva almeno 30 pagine di italiano da studiare. E doveva anche fare gli esercizi di matematica. E prepararsi all’incontro. Ripassava mentalmente le parole da dire e le cose da fare. Ma tutto si ingarbugliava nella sua testa in una scena opaca. Era ad un passo dalla depravazione. Non riusciva a mettere a fuoco neppure l’immagine fantastica di cosa sarebbe successo. Un vortice di palpitazioni, ansimi, possibili delusioni. Voleva credere, però, che sarebbe andato tutto secondo i suoi piani.
Le ore che seguirono furono di studio e pensieri. Aveva mangiato, in maniera rapida, una pasta fredda lasciatagli dalla mamma e aveva buttato giù una coca zero in un fiato. Si era riseduta al tavolo di studio. Leopardi e le funzioni si intrecciavano alle immagini del prossimo incontro. Si vedeva in camera, di fronte allo specchio, nuda, con le spalle rivolte al letto dove era sdraiato l’ingegnere, a pochi centimetri dal suo culo, di fronte a Ribelle, che lo guardava dall’alto. Avrebbe avuto davanti le natiche sode di lei, con un po’ di cellulite adolescenziale e un inaspettato brufolo, che Sara non aveva intenzione di togliere. Si immaginava mentre torceva il collo e voltava la testa, appoggiando le mani come ad agguantare le natiche, per aprirle e mostrare a Terenzoni il piccolo buco e, chinandosi avanti, svelare la fica, depilata e gonfia. L’aveva depilata da sola, con il rasoio, perché si vergognava a farlo fare all’estetista. Aveva usato la crema da barba del padre e, facendo molta attenzione, con movimenti rapidi, aveva passato il rasoio sulle grandi labbra, cercando di togliere più peli possibile. Il risultato era stato soddisfacente: era rimasta solo una piccola strisciolina di peli castani. Fini e volatili. Voleva credere che l’irreprensibile ingegnere in quel momento si sarebbe tuffato a leccare culo e fica, facendola gocciolare abbondantemente. Depravazione. Nient’altro. Immersa in questi pensieri, si accorse che erano le 16.30. Il condizionatore acceso non aveva impedito che sudasse in maniera anormale. Si spogliò, si fece una doccia veloce e si rivestì esattamente come era uscita la mattina. Il tempo passò veloce, come le fece capire il suono del campanello. Doveva essere lui. Non rispose nemmeno al citofono, aprì il portone e aspettò respirando forte.
Quando l’ingegnere le si parò davanti, apparve insoddisfatta. Fu assalita da strani pensieri: lui avrebbe potuto allontanarla, si sarebbe potuto imbestialire e sarebbe fuggito, senza mai più rivolgerle uno sguardo; avrebbe addirittura avvertito i genitori, una volta rientrati. Invece, l’ingegnere, dopo aver esitato solo qualche secondo, sorrise, senza dire una parola. Un po’ di sudore gli bagnava la fronte e il collo, ma tutto sommato dava una impressione di freschezza. Anche Sata sorrise, lo fece entrare tirandolo per la mano e lo portò, sempre tacendo, in sala, mostrandogli il divano. Si sedettero e si guardarono negli occhi per qualche secondo. Nessuno dei due parlava.
Lui ruppe il silenzio: - allora questi documenti?
Lei spalancò gli occhi, stava quasi per ridere. Alzò le spalle, piegò la testa da una parte e replicò: -i documenti…vero…
Fece per alzarsi, ma si chinò di scatto verso di lui, gli pressò la schiena contro il divano. Con un atto fulmineo, gli sbottonò i pantaloni e cominciò a succhiargli il cazzo. Non si stupì che lui era praticamente già duro. E non si stupì nemmeno che non oppose alcuna resistenza. Lui Ansimò subito, quasi sdraiandosi, mentre Sara mandava l’uccello in gola. Si fermò un attimo, per sfilargli i pantaloni completamente. E i boxer larghi a righe, che facevano sembrare le cosce di lui dei batacchi di una campanella. I peli neri sulla pelle bianca erano il chiaro segnale che al Terenzoni non piacevano né la spiaggia, né tantomeno lo sport. Sara riprese il pompino, cercando di infilare la mano sotto le natiche di lui. Cercò qualche secondo e trovò il buco. Per un momento lui non aveva capito. La ragazza infilò il dito nel culo dell’ingegnere, muovendolo piano, cercando di non fargli male. Il su e giù con la bocca e con il dito diventarono ritmici, per poi arrestarsi di colpo. Era intenta a venerare la cappella gonfia. Terenzoni era rosso in volto, gli occhi stretti e la bocca quasi spalancata mostravano uno stato emotivo in cui si era trovato poche volte. L’entusiasmo di Sara nel mordicchiare la cappella e passarci sopra la lingua in maniera sguaiata, schioccando la lingua, gli davano una energia insolita. La ragazza si sollevò e gli mise la lingua in bocca, continuando con le mani sul cazzo. Le lingue si intrecciarono per qualche secondo, finché lui, eccitatissimo, la spinse indietro, fino a sdraiarla sul divano. Le sfilò i pantaloncini e per un momento si meravigliò che lei non avesse le mutande; spinse la sua lingua nella fica, che era già fradicia. La ragazza ansimava forte, sembravano lamenti di un agnellino che sta per essere macellato. L’ingegnere sentiva il liquido della fica di lei colargli sul mento, mentre teneva il cazzo in tensione con una leggerissima masturbazione. Leccava fica e culo con un solo colpo, lungo, di lingua, e con la mano non impegnata sul cazzo le stringeva il seno piccolo, prendendo fra le dita il capezzolo lungo e turgido. Lei si muoveva in maniera forsennata e innaturale, inarcando la schiena, come un serpente cui è stata tagliata la testa.
Tutti e due compresero che era il momento.
Il cazzo entro nella fica adolescente con una semplicità che nessuno dei due immaginava. Scivolò dentro. L’ingegnere diede due o tre colpi, e non fece in tempo a dare il quarto, che Sara lo stava già cavalcando. Lui seduto sul divano e lei sopra, con le mani strette sul poggia-schiena, muovendosi forte e roteando. Teneva la lingua completamente fuori, mentre un filo di bava le colava ai lati delle labbra. Lui la baciava intensamente, stringendole i seni in maniera forse troppo vigorosa. La ragazza quasi piangeva. Stettero così 15 minuti. Non dicevano nulla. Ogni tanto lei, le sussurrava all’orecchio “voglio il tuo cazzo, devi darmelo, sempre”. Lui non rispondeva. Ansimava, di gola. Non riusciva a trattenere la bava, che lei leccava piano sulle labbra e sul mento, per poi rigettargliela in bocca, dall’alto, assottigliando le labbra. Un ritmo intensissimo, impensabile con la moglie, pensava la ragazza. Lei sentiva che il cazzo cominciava a pulsare in maniera rapida; lui respirava forte, dal naso. Le aveva infilato le dita in bocca. Stava trattenendosi. Sarà, mentre succhiava il medio e l’indice di lui, capì subito che era vicino a venire, per questa ragione calò il ritmo dei colpi di bacino, lo accarezzò sulla faccia e sfilò il cazzo piano piano. Si mise di spalle, girò il collo per guardarlo e lo invitò con gli occhi.
A lui si schiudeva una fica rossa, gonfia e bagnata, ma quello che attirò la sua attenzione fu il piccolo nodulo che formava la zona anale. Sembrava un bocciolo di orchidea che deve ancora schiudersi. Se lei si mostrava così era perché voleva fargli capire che poteva entrare anche lì. L’ingegnere appoggiò la cappella appena sopra il buco del culo di lei, porto il corpo in avanti e provò ad entrare. Lei si ritirò, con un lieve, ma intenso grido di dolore. Lui privo ad inumidire la parte prima con la saliva, poi con i liquidi della fica di lei che ancora le colavano sulle gambe. Era più lubrificata, ma ancora il dolore non era sopportabile. Allora Terenzoni pensò di lasciar perdere e la penetrò di nuovo nella fica. Lei accolse il cazzo, per qualche secondo, ma poi lo sfilò e riprovò a centrarlo sul buco del culo. Prese un respiro e, senza parlare, gli fece segno di provare. La cappella entrò subito, lei riprese a respirare forte e, lentamente, il cazzo entro completamente nel culo della ragazzina. L’ingegnere sembrò sollevato. Si era tolto un peso. Ora sapeva che poteva cominciare a pompare. E così fece. Le scopò il culo per quasi cinque minuti. Il limite della sopportazione. Per lei non era la prima volta, ma era come se lo fosse. Il precedente era stato all’inizio dell’anno scolastico, con il professore di educazione fisica, un supplente poco più grande di lei. Avevano cominciato a scopare pochi giorni dopo l’inizio della scuola e lo facevano prima durante e dopo le lezioni, tutti i giorni. Una volta lui le aveva chiesto il culo e lei glielo aveva dato. Soffrendo, ma senza lamentarsi troppo. L’aveva fatto, aveva perso tutte le sue verginità. Ancora una volta depravazione. Nient’altro.
L’ingegnere, esausto, la afferrò per i fianchi, fece rapidi movimenti con il ventre, emise un urlo grave, cercando di trattenere il volume. E venne. Le teneva il cazzo dentro il culo, mentre la stava riempiendo di sperma. Liquido e giallino, misto a sangue vivo, aveva imbrattato sia le gambe di lei, che il bacino di lui. Fu in quel momento che Terenzoni realizzò di avere quasi 35 anni più di Sara e di avere una figlia coetanea di lei. Un pensiero del genere avrebbe sprofondato chiunque in un senso di colpa di grosso come una casa. Ma era chiaro che le grida di piacere della ragazza, il suo volto soddisfatto e, soprattutto, il culo che gli si contraeva davanti, gli sgombrarono la testa da ogni cattivo pensiero. Fu in quel momento che notò il piccolo brufolo sulla natica della ragazza. Si concentrò su di esso qualche secondo, poi lo tolse con le unghie. Sara ne fu contenta. Forse lo aveva lasciato là proprio per questo. Era l’ultima violazione del suo corpo, ancora tremante. Quando il cazzo si smorzò, l’ingegnere lo tirò fuori con delicatezza, ammirando il suo sperma che ancora sgorgava dal buco di lei. Non si trattenne dal leccarlo, avidamente. A Sara piacque molto. Si pulì, persino, con l’indice un po’ di sperma dall’interno coscia e mise il dito in bocca all’ingegnere, che dapprima si ritrasse, poi succhiò.
- Quando hai l’esame? -Chiese l’ingegnere.
- Fra quattro giorni -ripose Sara.
- Sei preparata?
A quella domanda, lei rise, e si rimise in bocca il cazzo di lui. Ricominciarono. Gli ritornò duro, subito, come quando era ragazzino. Lo fece sborrare tre volte, per poi rimandarlo dalla famiglia verso le 19.30. Missione compiuta. Depravazione.
Quando se ne andò, Sara si mise a fissare tutti i posti dove lo avevano fatto. Li studiò, ripercorrendo con la mente tutti i movimenti, le sensazioni, i sapori. L’ultima volta, si era fatta venire in bocca, ingoiando tutto, come immaginava di fare da qualche mese. Da quando aveva visto Terenzoni la prima volta, aveva costruito l’immagine di quella giornata, pezzo per pezzo. Rimaneggiando le immagini, scambiando i pezzi, accorciando e allungando i tempi. Immaginava lui in famiglia, con la moglie, le figlie, le scartoffie del comune e i suoi pennelli. Aveva anche pensato di indurre i genitori a comprare un suo quadro, per rendere più reali le sue fantasie. Ma solo quando aveva saputo della inaspettata vacanza dei genitori, aveva cominciato seriamente a macchinare un piano per incontrare quell’uomo più grande di lei. Il piano era semplice, ma lei sapeva che avrebbe funzionato. Il sapore del suo sperma era ancora lì a dimostrarlo.
E quel sapore Sara se lo portò dietro anche il giorno dell’orale dell’esame di maturità. Fu un successo: discorso fluente, divagazioni letterarie, ammirazione dei suoi professori. Nel frattempo, i genitori erano rientrati e avevano avuto il tempo anche di festeggiare il suo compleanno. Ora era diplomata e maggiorenne. La aspettava l’università e la vita adulta. Il tempo della depravazione era finito.
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