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Danilo e Federico - Finale Parte I: Serena (14)


di vgvg91
03.02.2022    |    5.395    |    13 9.5
"«Non fare il finto tonto con me, sono pur sempre tua madre..."
*PREMESSA*
Cari lettori, vi ringrazio di cuore per aver seguito con la stessa partecipazione di un anno fa questa storia a episodi. Con questo capitolo si conclude la prima parte della storia. La mia intenzione era di fermarmi, ma sono giunto alla conclusione che alcuni nodi restino da sciogliere e che i personaggi debbano ancora maturare. In questo momento sono alle prese con la stesura della seconda parte, ma mi ci vorrà un po' di tempo. Se vorrete seguirmi, mi troverete sempre qui.
Grazie ancora.

Durante il fine settimana seguente, partimmo per Roma, approfittando del mio giorno libero. Era un mite sabato mattina di marzo inoltrato, il sole tiepido preannunciava la primavera e accompagnava il nostro cammino. Non parlammo molto: non sapevo se Danilo fosse ancora pronto ad instaurare un dialogo normale con me e io, dal canto mio, non volevo forzare le cose, lasciandogli carta bianca.
«Ho riottenuto il lavoro» mi informò lui, improvvisamente.
«Ottima notizia!» risposi, con un largo sorriso. «Hai avuto problemi?».
Danilo si strinse nelle spalle, senza distogliere gli occhi dalla strada. «A dire il vero, no. Ho spiegato la situazione al mio superiore, dicendogli che stavo passando un brutto periodo e che, se avesse voluto, sarei stato disposto a ricominciare partendo dal basso».
«E lui cosa ti ha risposto?».
«“Non essere sciocco”, mi ha detto. Poi ha aggiunto che cose di questo genere possono capitare a tutti, ma che mi avrebbe concesso soltanto un’altra occasione per recuperare. “Non posso perdere un elemento prezioso come te”» concluse, citando le parole del suo capo.
«Te lo meriti. Ne sono felice». Restammo in silenzio per il resto del viaggio.
Il centro di recupero si trovava nella periferia di Roma. Consisteva in una grande villa storica attorniata da un esteso giardino che i pazienti sfruttavano per godersi delle lunghe camminate all’aperto. Mi guardai attorno mentre procedevamo verso il banco di accettazione: i pazienti della struttura mi suscitarono una impressione di assoluta normalità, a dispetto della divisa dal tessuto bianco che indossavano. C’era chi giocava a scacchi, leggeva un libro, chiacchierava tranquillamente passeggiando. L’atmosfera era pervasa da un’assoluta tranquillità.
«Buonasera, benvenuti nella nostra struttura» disse la segretaria, accogliendoci con gentilezza.
«Buonasera» rispose Danilo, «sono venuto per fare visita a Serena Rinaldi». Lo osservai con aria interrogativa, ma rimasi in disparte dietro di lui.
«Ah, signor Rinaldi! Sbaglio o non si è fatto vedere ultimamente?».
«Ehm, sì… Ho avuto dei problemi» fece Danilo, visibilmente a disagio.
«Ora che me ne rendo conto, ho un promemoria per lei da parte del Direttore. Ci sarebbero un paio di mesi da saldare».
«Mi dispiace: me ne occuperò subito, non appena farò visita a Serena» concluse Danilo.
«Non si preoccupi. Serena è nella sua stanza in questo momento, prego» disse la segretaria, indicando il corridoio alla sua destra.
Ci incamminammo lungo il corridoio verso la nostra destinazione, finché non ci fermammo davanti alla stanza numero 124. Sul cartellino, lessi nuovamente la dicitura “Serena Rinaldi”. Il cuore cominciò a battermi all’impazzata, perciò mi costrinsi a rimanere il più rilassato possibile mentre Danilo apriva la porta della camera.
La camera, in realtà, si rivelò essere un piccolo appartamentino privato, completo di tutti gli strumenti di prima necessità. Nella stanza principale, c’era un piccolo bancone con un piano cottura discreto e un tavolino rotondo con un paio di sedie. Un divanetto era collocato in fondo, accanto alla finestra che dava sul giardino e illuminava l'ambiente con i toni caldi del sole. Lì seduta, intravidi di spalle una donna esile: aveva i capelli grigi, raccolti in una pinza, e fumava osservando fuori dalla finestra.
«Ciao, Serena» disse Danilo con la sua voce calda e profonda. La donna piegò leggermente il capo, poi, schioccando le labbra, si limitò a dire: «Ti sei deciso». Con la coda dell’occhio, vidi Danilo arrossire.
«Scusami. Oggi sono in compagnia».
Serena sbuffò vistosamente, poi si girò nella nostra direzione e sollevò le sopracciglia. Mi sentii improvvisamente sotto una gigantesca lente di ingrandimento e mi strinsi nelle spalle. Notai subito che la donna aveva gli stessi occhi di Danilo, cerulei e penetranti. La bocca era simile a una lama tagliente, il viso era affusolato e cosparso di rughe. Era evidente che gli eventi traumatici della sua vita l’avessero fatta invecchiare molto più del previsto.
Serena distolse lo sguardo per fumare e Danilo ne approfittò per rivolgersi a me e dirmi: «Devo vedere urgentemente il Direttore. Federico, ti dispiace aspettarmi qui finché non torno?».
Volevo sprofondare, ma non tradii la mia emozione che in quel momento mi stava avvolgendo e risposi affermativamente. Danilo uscì di fretta dalla camera, lasciandomi lì. Rimasi immobile, incerto sul da farsi.
«Sei una statua o cosa? Avanti, siediti» disse lei, con voce dura. Trasalii e corsi a prendere posto.
Serena spense la sigaretta in un posacenere e prese a fissarmi.
«Allora ti chiami Federico». Mi squadrava da capo a piedi, ma mi sforzai di mantenere lo sguardo con fermezza e mi limitai ad annuire con un lieve cenno del capo.
«E cosa fai nella vita?».
«Sono un insegnante di lettere». Notai il suo sopracciglio destro inarcarsi all’inverosimile.
«Perché?».
«Perché, anche se volessi o potessi, non sceglierei nessun altro lavoro nella vita all’infuori di questo» risposi. Trovai quella domanda assai curiosa, ma mi limitai a rispondere con franchezza, intuendo ciò che la donna volesse da me. Il suo sopracciglio si abbassò, poi prese un’altra sigaretta e la accese. Tornò a fissarmi: «Sei del sud». Non era una domanda.
«Sì» mi affrettai a confermare.
«Cosa fanno i tuoi genitori?».
«Mio… padre è operaio in una ditta, mia madre è casalinga».
«Non vergognarti mai di loro». La voce di Serena era straordinariamente tranquilla, eppure ogni parola sembrava trafiggermi il petto come una lama.
«Perché dovrei?» chiesi, con aria sinceramente interrogativa.
La donna non rispose: inalò un po’ di fumo e lo gettò fuori, piegando la bocca di lato.
«Danilo non mi chiama più “mamma”» disse, all’improvviso, sciogliendo finalmente un mio dubbio. Poi, finalmente, sorrise: la sua espressione mi ricordò quella di Danilo. «Teme che, utilizzando quell’appellativo, io possa associare la sua persona all’uomo con cui l’ho generato. Ma a me manca terribilmente sentirglielo dire».
«Dovrebbe farglielo capire, allora» mi azzardai a proporle ma mi pentii immediatamente di averlo fatto quando Serena mi trapassò con lo sguardo, temendo di essere stato troppo sfacciato. Poi, mi rispose: «Forse è vero». Mi sciolsi sulla sedia, sollevato, per allentare la tensione.
«Si è anche fatto cambiare il cognome dopo il fattaccio. Ha preso il mio, nel tentativo di cancellare ogni traccia del passato. Ma il passato è ciò che ci rende quello che siamo oggi. Mio figlio, a volte, non riesce a capisce come certe cose siano indelebili e questo non è il modo giusto per superarle». Serena tornò a guardare la finestra, dopo che ebbi annuito in segno di totale accordo con le sue osservazioni. Aveva uno sguardo profondamente malinconico, vissuto, eppure riuscii ad intravedere una sorta di pace interiore acquisita nel tempo, seppur con enorme fatica. Fece un tiro dalla sigaretta, poi mi disse: «Ti faccio un caffè».
«Me ne occupo io» mi proposi, alzandomi di scatto. Avrei preferito fare qualsiasi cosa pur di non starmene lì impalato.
Sentii gli occhi di Serena che mi scrutavano per tutto il tempo, mentre preparavo il caffè sul bancone minuscolo della cucina.
«Che destino bizzarro, il mio» disse poi in un sussurro. Non risposi, ma avevo le orecchie tese all’ascolto.
«Mi chiamo Serena, ma non sono mai stata serena nella mia vita» continuò, ridendo. Non sembrava turbata, così mi voltai e, battendo le palpebre, osservai con praticità: «La sua vita non è ancora finita».
«No, è vero» convenne lei amabilmente.
D’un tratto, la porta si aprii ed entrò Danilo, guardandomi con aria interrogativa accanto al bancone. Io gli sorrisi, poi Serena parlò, rivolgendosi al figlio e indicandomi con un cenno del capo: «Lui mi piace».
«Ehm… come?» biascicò Danilo, incerto. Io rimasi in silenzio.
«Non si avvicina minimamente a quella scialba sciacquetta che ti ronzava in giro prima. Come si chiama, Veronica?».
«Vanessa» precisò Danilo, sconcertato. Poi aggiunse: «Ma… come…».
«Oh, andiamo!» lo interruppe spazientito Serena. «Non fare il finto tonto con me, sono pur sempre tua madre. È da quando avete messo piede qui dentro che mi sono accorta che te lo mangi praticamente con gli occhi!» sentenziò lei.
Sia io che Danilo diventammo paonazzi. Serena, gustandosi la nostra vistosa reazione, rise di gusto.
Bevemmo il caffè insieme, parlando del più e del meno. Serena non accennò minimamente alla nostra conversazione: ne fui immensamente grato. Poi, facemmo una lunga passeggiata nel parco. La donna continuava a fumare, mentre salutava distrattamente i suoi compagni. Io e Danilo le stavamo dietro, ascoltandola lamentarsi di alcuni comportamenti bizzarri degli altri pazienti della struttura e della maleducazione di uno degli inservienti.
«Finalmente l’inverno è finito» disse infine, levando lo sguardo al cielo.
Il sole era ormai sul punto di tramontare, quando Danilo si rivolse alla madre: «Noi dobbiamo proprio rincasare, ci aspetta un bel po’ di strada per tornare a Milano». Serena annuì e si fermò. La sua espressione divenne improvvisamente dura quando disse molto pragmaticamente al figlio: «Se te lo fai scappare, sei pregato di non presentarti mai più qui». Non sapevo dove nascondere la faccia, nuovamente paonazza. La donna diede un colpetto sulla spalla di Danilo e proseguì, fermandosi accanto a me. Poi mi sussurrò all’orecchio: «Stagli vicino». Ci voltammo entrambi a guardarla, mentre rientrava pacificamente nella struttura. Improvvisamente, il mio cuore traboccò di profondo rispetto per la straordinaria forza di quella donna.
Arrivati all’auto, dissi a Danilo: «Portamici ogni volta che vorrai. È una donna di rara sensibilità e vorrei consigliarle un sacco di libri da leggere».
«Va bene» rispose. Sembrava colmo di gratitudine. «Cosa vi siete detti?» si affrettò a dire, con sguardo circospetto.
«Poche parole, ma illuminanti. Ah, per cortesia» aggiunsi, piegando la testa per rientrare nell’abitacolo. «Chiamala “mamma”».
Era notte fonda quando arrivammo a Milano. Sia io che Danilo eravamo stanchi morti, al che mi propose timidamente: «Vuoi… restare a casa da me stanotte? Domani è domenica, potremmo trascorrere la giornata insieme». Esitò un attimo, poi aggiunse rapidamente: «Accetto anche un no, non ti preoccupare».
Lo guardai intensamente, poi gli dissi con una vena ironica nella voce: «Hai già intenzione di farmi scappare? Tua madre non la prenderà per niente bene».
«No, non servirebbe. Verrei a riprenderti» rispose lui.
«Certo che vengo da te».
Quando entrammo in camera da letto, la tensione nell’aria si fece palpabile. I nostri occhi si cercarono diverse volte, mentre ci preparavamo per andare a dormire. Mi accomodai nel letto e Danilo fece lo stesso, spegnendo le luci. Questa volta, avevo intenzione di lasciargli campo libero, affinché si gestisse come meglio preferiva, assecondando i suoi tempi.
«Beh, buonanotte» mi disse, con voce burbera.
«Buonanotte» risposi tranquillamente. Senonché, dopo qualche secondo, lo sentii avvicinarsi, circondarmi con le braccia e spingere il suo enorme sesso sul mio ano.
«Ho campo libero?» mi sussurrò all’orecchio con dolcezza, provocandomi un brivido di piacere.
«Speravo che me lo chiedessi» gli risposi con voce suadente. «Fammi tuo».
Non se lo fece ripetere due volte: prese a baciarmi l’orecchio, scendendo lungo il collo con passione. Con la mano, mi sfilò i pantaloncini e gli slip, mentre lui, già nudo come era solito dormire, strusciò il cazzo sulle mie natiche.
Sporsi indietro il braccio e accarezzai la sua nuca con la mano, ansimando di piacere. Danilo mi mordicchiò il lobo dell’orecchio, poi mi palpò le gambe e il culo, cercando il mio ingresso con le dita. Mi accarezzò la rosa del mio ano, che fremeva di desiderio. Il mio cazzo emise già i primi liquidi pre-spermatici.
Poi, sputò sulla mano e forzò il buco, allargandolo con un dito. Respirò profondamente nel mio orecchio e ricambiai il gemito quando inserì anche il secondo. Prese a stantuffarmi velocemente, provocandomi brividi di piacere lungo tutto il corpo; con le dita ancora umide, mi titillò i capezzoli, stringendoli e solleticandoli.
Allora, Danilo lubrificò il membro: ero pronto, aspettavo quel momento come mai prima in vita mia. Avvicinò la grossa cappella al mio buco e spinse. Tirai un profondo respiro, colpito dalla potenza del suo cazzo che mi allargava le viscere a dismisura.
«Oh sì, piccolo, è fantastico» gemette Danilo, affondando pazientemente centimetro dopo centimetro nel mio ano. I nervi del retto mandarono talmente tanti impulsi al mio cervello, che mi vidi costretto a urlare: «Scopami, Danilo! Sono tuo!».
Il cazzo entrò in profondità, poi cominciò ad assestare dei colpi di bacino impressionanti. Se non fosse che mi teneva saldo a sé con il braccio, sarei caduto sicuramente dal letto, a causa dei forti contraccolpi.
Non avvertii il minimo dolore: il mio era solo piacere di essere posseduto da quell’uomo magnifico, potente. Portai indietro una gamba e la incrociai attorno alla sua, per agevolarlo nella penetrazione. Danilo cominciò a grugnire sommessamente, manifestando il piacere che provava nello sfondarmi. Mi bloccò il fianco con la mano e prese a spingere con tutta la sua forza: sembrava volesse raggiungere profondità mai sperimentate prima.
Stavo godendo: avvicinai la mano del braccio con cui mi stringeva alla mia bocca e gli succhiai le dita avidamente. Danilo me le spinse in gola e iniziò a fottermi con ancora più vigore di prima in entrambi i buchi.
Improvvisamente si fermò: per un attimo, temetti che credesse di aver superato il limite. In realtà, mi sollevò di peso e mi fece stendere a pancia in su, allargandomi le gambe e posizionandosi fra di esse. Mi penetrò con il suo sguardo glaciale, ma il mio uomo sorrideva dolcemente, mentre affondava il palo di carne nuovamente nelle mie viscere. Poggiai le mani sul suo petto e mi lasciai scopare in quella posizione, stringendo le gambe attorno ai suoi fianchi.
Sul suo viso, una smorfia di puro godimento si fece sempre più intensa e i suoi colpi incessanti aumentarono di forza. Presi a urlare per il piacere, ma Danilo mi baciò per ovattare i miei gemiti. Portai le braccia attorno alle sue spalle e mi strinsi a lui, trasmettendogli tutto il godimento che stavo provando.
Con mia somma soddisfazione, ricominciai a sentire il consueto calore che si diffondeva dal mio ano in tutto il corpo: ero fuori di me, muovevo anche io il bacino ritmicamente con Danilo, che apprezzò la mia intraprendenza approfittandone per impalarmi ancora più a fondo. Le mie viscere andavano a fuoco, il mio ventre reclamava di essere riempito da quella forza animalesca.
La schiena di Danilo era madida di sudore e il profumo pungente di maschio colpì le mie narici, facendo scattare la scintilla: il calore esplose e il mio cazzo eruttò, sconvolto dalla potenza delle contrazioni vigorose del mio ano. Danilo mi lasciò urlare il mio godimento, mentre mi accompagnò con il suo orgasmo, stimolato dalle convulsioni delle mie pareti rettali.
«Sì piccolo, sei miooo!» e venne copiosamente, ricoprendo le pareti infiammate del mio ano con la sua calda sborra. Assestò dei colpi potenti e precisi, mentre il mio orgasmo procedeva ad affievolirsi. Il cazzo pulsante di Danilo si strusciò comodamente nel mio retto, mentre l’omone si accasciava su di me, sfinito, imbrattandosi con i miei umori prodotti dalla sua forza.
Sollevò lo sguardo e ci baciammo intensamente, a lungo, i nostri corpi ancora uniti. Poi, Danilo mi sussurrò: «Ti amo, Federico».
Sorrisi e lo strinsi forte a me. In quella posizione, mentre ancora ansimavamo all’unisono, mi chiese all’orecchio, con una nota di preoccupazione nella voce: «Come faremo d’ora in poi?».
“Già, come faremo adesso?” pensai. La maturata consapevolezza di ciò che quei due corpi significassero, stretti in quell’abbraccio, mi diede la forza per rimettere insieme i pezzi confusi dei miei ultimi mesi di vita. Ero stato ferito, distrutto e costretto a ricomporre i frammenti del mio spirito in maniera diversa rispetto a prima per sopravvivere. Non sarei mai più stato il Federico di un tempo. Eppure, ero ancora lì, tra le braccia di un uomo più distrutto di me. Danilo mi aveva sconvolto la vita, senza rendersi nemmeno conto di ciò che avesse causato. Ma, allo stesso tempo, era stato l’unico a provocarmi emozioni mai sperimentate prima. Proprio lavorando insieme avremmo potuto farcela: quella flebile speranza accese nel mio petto un inspiegabile senso di sicurezza.
Il lungo flusso dei miei pensieri si distese, come un placido ruscello che segue il suo percorso. Ma, dall’esterno, a Danilo parve che esitai solo un attimo prima di rispondere.
Poi, semplicemente, dissi: «Continueremo a vivere. Ti amo, Danilo».
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