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Gay & Bisex

Gli smilzi


di Fury
02.10.2009    |    9.904    |    0 5.4
"Ci pensai su per una frazione di secondo, poi l’afferrai..."
Raggiunsi il terzo binario e mi avvicinai all’obliteratrice: fuori servizio. Proseguii lungo la banchina; a metà di questa c’era un’altra macchinetta per timbrare i biglietti, ma nemmeno questa funzionava. Il clima era afoso. Camminai ancora e giunsi all’ultima obliteratrice in fondo al lungo binario; la luce era verde ma quando introdussi il biglietto non accadde nulla: nemmeno questa funzionava. Fuori dalla locomotiva stava un controllore, un controllore donna: le spiegai la situazione chiedendo che mi obliterasse il biglietto a penna ma lei mi rivolse poche parole svogliate e cominciò a parlare al cellulare. Mentre pazientemente aspettavo che concludesse la sua conversazione un tubo mi sbuffava addosso aria caldissima da sotto il locomotore. –Prendi il sottopassaggio- mi disse infine -e raggiungi l’obliteratrice di un altro binario- Le obbedii scocciato. Non capivo perché si ponesse tanti problemi a scrivere manualmente la data e l’ora di convalida sul mio biglietto ferroviario. Quando finalmente riuscii ad accomodarmi su un vagone presi il mio libro dallo zaino e cominciai a leggere. Il caldo, all’interno, era insopportabile nonostante tutti i finestrini fossero abbassati, e attraverso i vetri potevo osservare altre persone alle prese con la macchinetta obliteratrice: nessuno di loro sembrava particolarmente contento. Dopo poche pagine di lettura il mio telefono cellulare si mise a suonare; infilai il biglietto tra le pagine del libro, in modo da non perdere il segno, e risposi.
-Pronto?-
-Ciao, Fury!-
-Ciao. Chi sei?-
-Paul!-
-Ah, ciao Paul-
-Cosa fai stasera?-
-Pensavo di guardarmi un film: La piccola bottega degli orrori…-
-Ok!-
-Sono ancora in treno, ci vediamo alle nove e mezza da me, va bene?-
-Ok, ok…-
-Se per quell’ ora non sono ancora arrivato aspettatemi fuori dal cancello e quando arrivo pestatemi-
-Con piacere-
- Non uccidetemi, però, e non lasciatemi invalido a vita-
-Ci proveremo-
-A dopo, allora-
-A dopo, ciao!-
Riappese. E io tornai al mio libro.
-Giù i piedi dal sedile!- fece una voce improvvisa e severa. Era il controllore donna. Spostai i piedi che avevo comodamente appoggiati sul sedile vuoto di fronte al mio. Intanto lei estrasse un blocchetto di fogli di carta.
-Non vorrà mica farmi la multa…- chiesi -la gente ci posa il culo sui sedili, non è forse più schifoso che un paio di piedi?-
Intuii dalla faccia della controllora che avrei fatto meglio a starmene zitto. Mi presi la multa mentre la vecchietta seduta fianco a me mi guardava con disappunto.
Conclusosi lo spiacevole episodio notai, su un sedile all’ altro lato del vagone, un ragazzo con la pelle color crema alla nocciola che portava una maglietta senza maniche col nome e i colori di una squadra di basket. Tutto a un tratto provai un forte desiderio di leccargli un braccio: “cioccolato…” pensavo “…cioccolato…” mentre la bocca mi si riempiva di saliva e il mio stomaco si contorceva. La vecchia seduta al mio fianco s’alzò uscendo dal vagone. Di lì a poco il treno si fermò in una stazione e, dal finestrino, la vidi scendere. Mi cadde l’occhio sul sedile alla mia sinistra: la borsa, quella rimbambita aveva dimenticato la borsa. Mi affacciai e provai a chiamarla -Scusi, signora!- urlai dal finestrino -La sua borsetta!- Ma fu inutile, aveva già imboccato il sottopassaggio. Il treno si rimise in marcia ed io mi rimisi seduto. Il nero mi guardava e la sua carne marrone continuava a darmi l’acquolina. Provai un certo desiderio di avere un rapporto sessuale con lui e mi feci un po’ schifo.
-Vuoi incularmi?- fece lui d’un tratto. Fui così sorpreso che lo guardai senza riuscire a rispondergli.
-Ti piacerebbe mettermelo nel culo?- ripeté
-Ehm…Stai parlando con me?- riuscii a chiedergli
-Certo. Vuoi che andiamo in bagno?-
Mi guardai intorno. Quella conversazione stava cominciando a diventare imbarazzante. Nel quadrato di sedili posti alle spalle di quello del nero una giovane donna mi guardava con aria scandalizzata.
-Senti- continuò il nero -perché non assaggi la mia carne marrone?-
-La… la…- balbettai io
-Avanti, leccala! Fa’ finta che sia cioccolato-
Sentii le budella muoversi e il mio stomaco implorare un po’ di quella carne. Ma non volevo farlo; sarebbe stato disgustoso, pensavo, disgustoso. Io… io non ero frocio! Tuttavia una parte di me (il mio lato irrazionale, suppongo) smaniava per una leccata a quel braccio… marrone. Provai a pensarlo come merda, merda marrone. Ma mi tornò subito in mente il cioccolato. Lui se ne stava lì, immobile, e mi fissava, e io me ne stavo seduto, immobile anch’io, fissandolo a mia volta mentre il cuore mi batteva veloce in petto e il mio stomaco mugugnava. D’un tratto si calò i pantaloni mettendo in mostra un grosso cazzo. Mi venne duro. “Non è possibile” pensai “m’è venuto duro! QUINDI IO… SONO FROCIO!” Sfortunatamente, senza farlo di proposito, pronunciai queste ultime parole ad alta voce. La donna seduta alle spalle del nero scappò via piangendo. Il nero si sfilò del tutto i pantaloni, rimanendo al suo posto, guardandomi. Deglutii. Il vagone era rimasto vuoto, mi alzai sulle gambe tremanti e mossi due passi verso di lui, rapito. Si sentiva solo lo sferragliare delle ruote del treno sui binari. Con incertezza mi accostai a lui e gli leccai il braccio, mi piacque, lo morsi e lui prese un respiro profondo, con la mano sinistra gli impugnai l’uccello e cominciai a masturbarlo. Si mise ad ansimare. Era bello, aveva un bel viso, senza l’ombra d’un pelo; mi piaceva, mi stava piacendo. Non avevo mai neppure immaginato che mi sarebbe potuto capitare qualcosa del genere; eppure eccomi lì, ce l’avevo duro, mi strusciai sulla sua gamba, lui lo sentì, capì, m’infilò le dita della destra sotto il bordo dei pantaloni, io gli mollai per un attimo il grande organo pulsante per slacciarmi il bottone e la zip dei blue jeans. Entrò nelle mie mutande con l’intera sua mano negra e prese a tirare in su e spingere in giù la pelle del mio sesso e, mentre prendevo ad ansimare anch’io, arrapato, potevo sentire i tubi e le arterie del mio pene gonfiarsi di sangue sotto le sue dita. Gli palpavo gli addominali e il petto assaporando la sua soda carne marrone resa ora più sfiziosa e irresistibile dal particolare sentore che il sudore, sintomo inequivocabile dello stato d’eccitazione sessuale, portava alla mia lingua, fattasi grumo di papille gustative festanti al sapore leggermente salato che le mie labbra, stringendo, spremevan di lui, bramose. Fu in questo nirvana di pulsioni incontrollabili che sentii qualcosa premere, da dentro, sulla mia cappella. Sapevo benissimo di cosa si trattava: -Stringilo di più- dissi eccitato. -Sì- fece lui. Durò ancora una trentina di secondi, poi saltò il tappo. Mi accasciai respirando forte tra le sue gambe, ma senza smettere di tirare e spingere la pelle di quel grosso, colorito pene. Finché non saltò il tappo anche a lui. Ero confuso: la sua pelle, pensavo, la sua pelle è così…liscia… saporita… La mia testa girava, a centoventi chilometri orari, penso. Ci riassettammo, ci guardammo negli occhi:
-Il mio nome è Jimmy- fece lui allungando verso di me la destra
-Fury- risposi stringendola nella mia e scuotendola un poco mentre mi mettevo a sedere sul sedile di fronte al suo. Stavo per aprire la bocca, per dire qualcosa, ma Jimmy mi precedette
-E tu chi sei?- fece voltandosi a sinistra mentre, distrattamente, si frugava in tasca. Io mi voltai verso destra, che poi era la sinistra di Jimmy: un ragazzino alto sì e no un metro e cinquanta se ne stava fermo, in piedi, nello stretto passaggio tra le due file di sedili. Aveva l’aria d’essere lì da un po’; come cazzo avevo fatto a non notarlo prima?
-Gli hai sbroffato sui pantaloni- fece il ragazzino guardandomi
-Come ti chiami?- gli domandò Jimmy senza badare allo schizzo di sperma che, in effetti, adornava i suoi blue jeans
-Mi chiamo Stefano- fece il ragazzino.
Jimmy aveva cavato dalla tasca un pezzetto di una sostanza che riconobbi essere hashish, e la stava scaldando sotto la fiamma dell’accendino. Ero molto disorientato. Insomma: avevo appena tirato una sega a un nero, e lui l’aveva tirata a me; questo già poteva bastare. Ma ora mi rendevo conto che un ragazzino di undici o dodici anni aveva assistito alla scena mentre il nero in questione, Jimmy, con totale indifferenza si stava preparando una canna nel bel mezzo del vagone.
-Quanti anni hai, Stefano?- chiese prima di leccare il bordo della cartina
-Tredici- rispose il moccioso
Minchia, tredic’anni. Io, a quell’età, non avevo ancora visto uno spinello ne’, tantomeno, due uomini masturbarsi a vicenda. Ma Stefano non sembrava affatto sconvolto.
-Sai cos’è questa?- gli chiese Jimmy sventolandogli lo spinello sotto al naso. Stefano, dopo qualche istante d’esitazione, fece un incerto cenno di no.
-È una canna- proferì Jimmy ostentanto l’atteggiamento di chi deve portare pazienza per istruire chi ne sa di meno -e si fuma-
Seguirono tre secondi di silenzio
-Hai mai fumato una canna, Stefano?-
Stesso cenno di no con la testa
-E una sigaretta?-
Nemmeno.
Jimmy diede fuoco a un’estremità del cannone ed aspirò dall’altra sputando poi una nube di denso fumo grigio. -Senti- intervenni preoccupato -è proibito fumare in treno, e a maggior ragione sarebbe consigliabile evitare di…-
Jimmy m’interruppe posando il suo indice nero sulle mie labbra e facendo sibilare un suadente “shhh” tra le sue. Mi passò la canna ed io diedi un tiro profondo. In effetti, era proprio quello che ci voleva: in simili occasioni non resta che annebbiarsi le idee per sostenere il peso dell’assurdo. Passai la canna a Stefano che la portò alla bocca e tirò insicuro: fece una gran nuvola e diede un colpo di tosse.
-Non così!- lo redarguì Jimmy -non hai aspirato!- Prese vita una bizzarra spiegazione sul come sfruttare il fumo in maniera ottimale; Stefano si dimostrò un buon allievo e, dopo parecchie tirate, finì coll’abbandonarsi mosciamente s’un sedile, con un sorriso ebete stampato in faccia. La canna era ritornata tra le mie dita quando riapparve la controllora. Era più incazzata che mai.
-Che cosa state facendo qui?- strillò con gli occhi fuori dalle orbite. Jimmy stava per risponderle ma io, ringalluzzito dallo spinello, lo precedetti
-Ci stiamo facendo una canna!- le risposi alzandomi e sbuffandole una densa nube in faccia. Quella riprese a strillare agitando minacciosa il blocchetto delle multe e affermando risoluta che avrebbe chiamato la polizia. Pochi secondo dopo, però, si ritrovava lunga distesa per terra mentre io, a cavalcioni su di lei, colpivo con una ritmica serie di pugni un volto impregnato di sangue. E quando il rumore dei miei cazzotti cominciò a mutare timbro passando da un secco “THUD-THUD” ad un poco rassicurante “CHACK-CHACK” sentii la voce di Jimmy risuonare lieve nel mio orecchio destro: -Hey, hey- mi disse afferrandomi dolcemente per le spalle -basta-
Mi fermai. -Fai un tiro- mi disse accostandomi alla bocca lo spinello che teneva tra le dita. Tirai. Lui s’accostò alla controllora che stava a terra immobile e le sollevò leggermente la testa sostenedole la nuca -Fai un tiro, bella- le disse ficcandole la canna tra le labbra. Ma lei non reagì. In compenso il filtro s’era sporcato di sangue. Jimmy diede un tiro profondo, le tappò il naso e con un bacio appassionato le risputò il fumo in bocca. Quando la lasciò andare lei ricadde pesantemente pestando la testa sullo spigolo del gradino che correva lungo tutto il vagone, tra il pavimento e la parete.
-Ci conviene scendere alla prossima stazione- fece Jimmy guardandomi preoccupato dal basso all’alto, ancora accovacciato sul corpo della donna. Io assentii. Poi si rivolse al ragazzino:
-Viaggi da solo?-
-Eh?-
-Sei da solo o con i tuoi genitori? Oppure con qualche amico?-
-Sono da solo-
-Dove stai andando?-
-A Lecco- rispose il ragazzino
-Beh, ci andremo insieme- affermò Jimmy -ma a piedi. E tu verrai con noi. Ormai sei nostro complice e non ti conviene rimanere su questo treno-
Il ragazzino, Stefano, si mostrò d’accordo, e sorprendentemente freddo. Il treno rallentò entrando in una stazione intermedia e, mentre ci avvicinavamo alla porta del nostro vagone, mi cadde lo sguardo sulla borsa che la vecchia aveva dimenticato sul sedile. Ci pensai su per una frazione di secondo, poi l’afferrai. Scendemmo alla stazione di un piccolo paese ed io mi diressi subito ai cessi pubblici, mi chiusi dentro e frugai nella borsetta, trovai il portafogli, ne estrassi alcune banconote e le misi in tasca. Non pareva esserci altro di interessante. Buttai tutto il resto nel cesso; la tessera sanitaria della vecchia galleggiava sopra le altre cose; pisciai sulla foto della sua faccia rugosa.




-Sei in ritardo- mi disse Paul sorridendo. Conoscevo bene il motivo del suo buon umore.
-Vuoi pestarmi?- gli chiesi -È giusto, ma mi difenderò, stronzo-
Paul rispose prontamente con un gancio che riuscii a parare; ma la stanchezza della giornata pesava sui miei muscoli e prima che riuscissi a contrattaccare un suo montante mi aveva raggiunto sotto il mento facendomi battere violentemente i denti e mandandomi subito ko. Quando mi ripresi mi ritrovai dolorante e ammaccato sull’asfalto di fronte al cancello di casa mia dalla quale provenivano schiamazzi e accordi di musica rock. Nel frattempo si era fatto buio. Mi accorsi subito che non avevo più il mio marsupio che portavo sempre assicurato alla vita e nel quale tenevo le chiavi, il portafogli, il cellulare. Mi ritrovavo quindi chiuso fuori casa, mentre quei bastardi dei miei amici se la stavano spassando coi miei CD. Paul si affacciò al balcone con una bottiglia di birra in mano. Una delle mie bottiglie di birra!
-Fatemi entrare, stronzi!- strillai. Lui si limitò a sorridermi malignamente mentre un altro saltò fuori con uno dei miei giornali porno in mano, fingendo un atto sessuale con la playmate di copertina. Mi sentii come se mi avessero rubato la fidanzata.
-Sarò buono- mi disse Paul, in maniera tale che le sue parole sembrarono trapassare il suo falso sorriso -ti lascio questa!-
Presi al volo la bottiglia che mi lanciò dal balcone e nel farlo mi slanciai perdendo l’equilibrio, finendo a terra, sbucciandomi un ginocchio. Poi guardai la bottiglia: era rum. Non potevo sopportare il rum da quando, un paio di mesi prima, mi ero preso una ciocca di cuba libre preparato con una bottiglia di marca scadente.
-Divertiti!- fece Paul prima di sparire nuovamente all’interno.
Ero livido. “L’ammazzerei” pensai voltandomi verso la strada.
-Sul serio?- fece improvvisamente una voce alle mie spalle. Sobbalzai e, girandomi di scatto, mi trovai di fronte a Stefano, il ragazzino che avevo conosciuto in treno, che m’afferrò l’avambraccio destro; la sua mano era così fredda che un brivido mi percorse tutto, facendomi gelare addosso il sudore di quella giornata afosa.
-Vuoi davvero che muoiano?- mi disse scandendo lento le parole mentre deformava l’espressione in un inquitante, diabolico ghigno.
-Come hai fatto a…- La voce si bloccava tremante in gola
-A seguirti fin qui? A leggerti nel pensiero? Voi uomini fate sempre le stesse, banalissime domande-
-Noi che?- Non ero sicuro d’aver colto il senso della sua frase. Ma Stefano non mi rispose.
-Vuoi che li uccida o no?-
-Cosa?- Ero sempre più confuso.
-Quegli stronzi che stanno bevendo la tua birra, usando il tuo stereo e saccheggiando il tuo frigorifero… li posso uccidere tutti- Parlava lentamente, aprendo eccessivamente la bocca, nel pronunciare le vocali aperte, e aveva tutta l’aria di essere in qualche modo invasato; forse la canna del pomeriggio aveva devastato la sua giovane, vulnerabile mente… Guardai verso la casa: una bottiglia infranse una finestra dall’interno facendo piovere una cascata di schegge sulla strada.
-Cazzo!- urlai. E poi, decisamente innervosito, mi rivolsi a stefano: -Vai, se ci riesci- gli dissi senza pensarci troppo -vai ad ammazzarli tutti!-
Il ragazzino si spalancò in un enorme, sproporzionato sorriso di soddisfazione che in pochi istanti si trasformò in una smorfia animalesca, accompagnata da un verso che si sarebbe facilmente potuto attribuire ad un grosso felino inferocito. La cosa, naturalmente, mi lasciò agghiacciato. Ma non quanto ciò che vidi in seguito. Stefano s’avventò contro il cancello, lo scardinò con una facilità disarmante, lo fece a pezzi e, armatosi di una delle sbarre dall’estremità appuntita di cui il cancello stesso era composto, si introdusse nel cortile. Paralizzato dallo stupore lo vidi compiere un enorme balzo e raggiungere così il balcone. Quado si fu introdotto in casa la musica che usciva dalla finestra cambiò di colpo, tramutandosi dal rock psichedelico dei Placebo al metal degli Slayer, pompato al massimo volume. Ma il baccano delle chitarre distorte non m’impedì di udire le urla strazianti provenienti dall’interno, certamente indici d’indicibili sofferenze per chi le emetteva, e messaggere d’orrore alle mie facoltà interpretative che, non potendo contare su una buona visuale di quel che accadeva in casa, si lasciavano guidare da quegli urli disperati, immaginandosi i più terribili scempi. I fatti che seguirono provano che non mi sbagliavo. Quando le urla cessarono, per alcuni lunghissimi istanti, il metal degli Slayer sembrò risuonare in uno spettrale silenzio, poi la porta di casa mia si spalancò di colpo e Stefano se ne uscì tenendo in mano qualcosa di grosso. Mi ci vollero dei secondi, per riuscire a credere ai mie occhi, perché quello che Stefano reggeva era Paul, infilzato nell’asta del cancello come un pezzo di carne allo spiedo. Con aria soddisfatta rovesciò l’asta piantandone la punta nell’asfalto a un palmo dalle punte dei miei piedi, mentre il corpo inerte di Paul s’inarcava in modo innaturale, scivolando lungo il suo spiedo.


Guido Micheli detto Fury
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