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Prime Esperienze

La scoperta del sesso


di Fury
02.10.2009    |    21.103    |    0 5.3
"Entrando nell’appartamento chiamò il fanciullo per nome; lei e Giovanni vivevano insieme ormai da sei anni, da quando lei lo aveva raccolto dallo spoglio..."
Quella pelle liscissima, quelle carni così sode, quei capelli neri neri che facevano da cornice agli occhi profondi e alle grosse labbra rosse ed intense della ragazza avevano catturato completamente l’attenzione del giovanissimo Giovanni che ora se ne stava impietrito, lo sguardo fisso proiettato all’altro lato della strada, stringendo con forza una sbarra della ringhiera del balcone. Giovanni era completamente privo di termini di paragone, non ricordava altro che la camerata dell’orfanotrofio in cui era cresciuto, una visione grigia di una fila di letti, alternata a brevi tratti dalla rimembranza di un altro grosso locale, l’immagine di una ciotola mezza vuota di una brodaglia a volte giallognola, altre volte verdastra, o di una tinta tendente al marrone, a seconda di quali avanzi disponesse il cuoco. Non poteva sapere perché i grossi, rotondissimi seni che si trovava davanti agli occhi gli comunicassero una sensazione di calore, perché il contrasto di quel calore con il freddo ferro della ringhiera gli provocasse agitazioni intestine che si traducevano nel sorprendente rigonfiarsi e pulsare di qualcosa, lì sotto, sotto la zip dei suoi pantaloni; un animale sconosciuto voleva uscire e lui aveva paura di aprirgli la gabbia, era combattuto tra la curiosità di toccarlo con mano e la paura di esserne morso.
Durante quegli stessi istanti, proprio mentre il piccolo Giovanni sperimentava questa intima crescita di potenti forze cognitive e somatiche, un altro corpo, stanco custode di un’anima al principio del suo autunno, che tuttavia non era riuscita a sbocciare nella sua primavera e non aveva avuto il vigore per gioire dell’estate, saliva lentamente le scale del palazzo. I ricordi di Suor Maria somigliavano molto a quelli di Giovanni, e allo stesso tempo da essi divergevano, in quanto le poche immagini conservate nel suo intimo album di fotografie ritraevano un curato e luminoso ambiente domestico fatto di pareti così bianche e di argenterie così lustre che il riportarle alla mente le causava sempre un abbaglio tanto reale che si trovava ogni volta costretta a strizzarsi gli occhi contraendo le palpebre e a ritornare in fretta ad occuparsi dei monotoni gesti del quotidiano presente e all’unico pensiero sul quale potesse soffermarsi senza correre il rischio di accecarsi: l’immagine di un crocifisso appeso in una chiesa barocca che aveva visitato quando aveva sedic’anni. Una grande croce di legno avvolta in una penombra umida, fredda, palpabile, come una grande, invisibile, avvolgente entità che fosse lì per preservare qualcosa, ed il volto di un Cristo i cui tratti somatici, il cui sguardo erano tanto profondi da materializzare il carattere della sofferenza, incorniciati in un’aureola intensa e dorata. Un raggio di luce penetrava un’alta vetrata come l’anima di un Dio che penetra attraverso gli occhi di chi si trova di fronte ad un’apparizione, e il fulgido disco dell’aureola rifletteva quella luce, ma non come le posate d’argento e le pareti della sua casa, bensì con gran pace e riposo, creando un alone che era come una seconda grande aureola, e quella era l’unica immagine che Suor Maria potesse ricordare senza bruciarsi gli occhi.
Entrando nell’appartamento chiamò il fanciullo per nome; lei e Giovanni vivevano insieme ormai da sei anni, da quando lei lo aveva raccolto dallo spoglio giardino dell’orfanotrofio sperando di farne un fiore facendolo crescere riparato e protetto nell’aiuola della sua bontà. Per la prima volta in sei anni Giovanni non rispose al richiamo. Suor Maria s’affacciò alla porta-finestra che dava sul balcone e per la prima volta vide il frutto della pianta che per lungo tempo aveva coltivato: il fanciullo aveva le braghe calate e si massaggiava delicatamente un colorito e maturo pene. Il suo giovane e limpido volto emanava la stessa luce di quel crocifisso e l’estasi della sua espressione era tanto nuova come nuova le era sembrata, tanti anni prima, l’estasi sublime di quel Gesù Cristo.
Suor Maria si spogliò del suo abito, della sottana, del reggipetto ed allungando le braccia disse:
-Vieni qui amore-
Il fanciullo le si gettò addosso e lei ne colse il frutto svezzando il suo corpo, liberandolo dall’antico digiuno. Riuscì solo a pensare che da quel giorno avrebbe avuto un altro ricordo da poter rivivere e che la luce di quel balcone non avrebbe accecato il suo sguardo.
Così è come un frutto maturo in autunno accolse un frutto della primavera, su un balcone di una brulicante e fertile città, sotto lo sguardo di carta di una grande e formosa donna che osservava impassibile da un cartellone pubblicitario, appeso sul muro del palazzo di fronte.




(www.guidomicheli.altervista.org)
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