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Quello che non volesti - 1


di adad
11.01.2022    |    6.856    |    6 8.5
"La fuga del valletto lo turbò: intuiva perché era scappato, anche se i ricordi della sera prima erano alquanto vaghi… vaghi, certo, ma ben presenti..."
Il drappello di armigeri a cavallo scortò Decenzio fino alla porta orientale della città, fermandosi subito al di qua degli enormi battenti, rinforzati da chiodi e piastre di ferro rugginoso. Al loro richiamo, un paio di sentinelle uscirono dalla guardiola e si diedero ad aprire la postierla poco più grande di una gattaiola, verso la quale un armigero spinse Decenzio con la punta della lancia. Il giovane non era alto, tuttavia dovette chinarsi per passare attraverso l’apertura, che si richiuse in fretta, prima ancora che avesse il tempo di voltarsi per dare un’ultima occhiata ai luoghi della sua infanzia, da cui era stato bandito. Decenzio guardò davanti a sé, il lungo cammino: primi albori, oltre le montagne, avevano appena mutato la tenebra notturna in un azzurro cristallino, che nonostante il dolore cocente, sembrò infondergli un senso di commozione, quasi di pace. Era verso lì che doveva andare, verso la luce che stava per nascere. Ma doveva affrettarsi. Rabbrividì al fresco pungente della notte, si calcò il cappuccio in testa e si strinse nel mantello; si aggiustò sulla spalla la sacca con le sue poche cose; poi strinse con forza il bordone, quel solido bastone da pellegrino, che era già stato di suo padre, e si avviò con passo deciso.
Doveva affrettarsi: entro il tramonto doveva essere fuori dai confini della città, pena la morte. Non aveva tempo di rammaricarsi, di contrirsi per quanto era successo: doveva affrettarsi.
E Decenzio si affrettò, mentre l’alba schiariva lentamente la strada davanti ai suoi passi. Quando, poco dopo, l’aurora si affacciò oltre i monti lontani in un trionfo purpureo per aprire i cancelli del sole, era già lontano dalle mura della città, che quasi non si scorgevano più nella foschia alle sue spalle. O era un velo di lacrime ad offuscargli la vista?
Comparve il sole e Decenzio continuò a camminare a capo chino, appoggiandosi al bordone, onde alleviare il peso sulle spalle e ancor più il macigno che si portava dentro il petto. Non rimpiangeva quello che era successo, non aveva senso neanche rammaricarsene.
Strinse ancora più forte il bastone nodoso e accelerò il passo, onde uscire al più presto dalla distesa di campi coltivati che circondavano la città e nascondersi nell’anonimato della foresta che si dipanava dalle pendici dei monti, ora più vicini. Doveva sfuggire all’attenzione dei contadini che già cominciavano a uscire dai loro tuguri: la sua condizione di bandito li autorizzava a insultarlo, a prenderlo a sassate, a rubargli le poche cose che aveva. E lui sapeva che non avrebbero esitato a rivalersi su qualcuno che appariva più misero di loro, scaricandogli addosso tutte le loro sofferenze e le loro frustrazioni. La pietà non appartiene ai miseri, specialmente se possono spartirsi le spoglie dei vinti.
Quando il sole fu alto, Decenzio si sedette su un ceppo di pietra coperto di licheni, forse il basamento di un’antica statua scomparsa, mangiò un tozzo del pane che portava nella sacca e bevve al ruscello che in quel tratto scorreva lungo la strada; ma fu una sosta breve; appena il sole avrebbe iniziato a declinare, sapeva che sarebbero partiti i cacciatori a cavallo, per accertarsi che fosse uscito dai confini della città… e se lo avessero colto ancora in strada, non avrebbero esitato a trapassarlo con un affondo di lancia.
Si rimise, dunque, in cammino, cercando di non rallentare il passo e il sole stava ormai per scendere alle sue spalle, quando finalmente varcò il confine, segnato da un’antica stele romana. Diede un sospiro di sollievo, tanto più che si era allontanato sì e no di un centinaio di passi, quando sentì il calpestio dei cavalli che lo inseguivano. Si fermò, voltandosi indietro, in preda all’ansia: cos’avrebbero fatto? Lo avrebbero lasciato andare? Lo avrebbero ucciso lo stesso?
Ma i cavalli arrestarono il loro galoppo vicino alla stele di confine.
“Il diavolo ti accompagni, sodomita! – gli urlò con scherno il capo degli armigeri – Vai a spargere altrove la tua infamia: grazie al Salvatore, ci siamo liberati di te e tanto basta.”
Decenzio abbassò la testa a quelle parole, poi si voltò e riprese il cammino, inseguito dalle urla di minacce e di scherno di quegli uomini. Camminò ancora, nonostante sentisse come l’osso delle gambe piantarglisi sempre più dolorosamente nella pianta del piede ad ogni passo: voleva allontanarsi il più possibile da quel luogo di dolore e di vergogna; ma alla fine non resse più e, incurante dei pericoli della notte, si rannicchiò tra le radici sporgenti di una grossa quercia, si strinse nel mantello e cercò di chiudere gli occhi.
Aveva sperato che san Giuliano gli apprestasse un rifugio migliore per la notte, ma chi era lui per aspirare ad un benevolo intervento del santo? Lui, un disgraziato… un pervertito… nemico del Signore… Quanto sarebbe stato meglio se lo avessero bruciato: cinque minuti di sofferenza e finiva tutto. Adesso, invece, doveva convivere con i suoi peccati, con i suoi rimorsi, per tutta la vita… e sperare che fosse breve.
Fu allora che la marea dei ricordi lo sommerse e tornò a straziarlo. Il ricordo della sua vita felice, solo pochi mesi prima, quando era il beniamino della gioventù cittadina… la stessa che poi gli aveva sputato addosso… Le feste, gli atti di magnificenza per conquistare il cuore delle belle dame, che di rado gli dicevano di no… E poi era arrivata lei, Rodolinda… la strega malefica che si era innamorata di lui e non aveva fatto altro che tendergli trappole per conquistare il suo letto. E all’ennesimo rifiuto, gli aveva lanciato la sua maledizione:
“Quello che non volesti, tu stesso sarai!”, gli aveva urlato con voce terribile, il fuoco del demonio negli occhi, sfigurata in volto dall’ira, stravolta dalla libidine frustrata, puntandogli contro le mani protese.
Quello che non volesti, tu stesso sarai! Parole terribili, di cui al momento non aveva capito il significato, la portata, anzi, lo avevano spinto a riderle in faccia, prima di andar via; ma lo aveva capito la sera stessa, quando, tornato a casa, aveva adocchiato il suo valletto e, spinto da un impulso incontrollabile, lo aveva piegato con forza alla sua lussuria. Gli aveva aperto la braghetta, aveva rovistato con mani avide fra le sue tenere carni e, riuscito ad eccitarlo, lo aveva costretto a montarlo come una giumenta… una giumenta lasciva, che godeva e smaniava nel sentirsi riempire dall’organo fremente del maschio. Aveva accolto con un guaito la sborrata nel suo culo e quando l’altro era uscito, aveva raccolto nella mano il liquido che fuoriusciva dall’orifizio violato e se lo era spalmato addosso con una frenesia che non era sua e di cui neanche si rendeva conto.
Si leccò la mano imbrattata di sugo virile, mugolando come la più laida delle puttane, poi si era avventato sull’organo ammosciato del valletto, lo aveva leccato e succhiato, grufolando rumorosamente, non pago finché non lo aveva ridotto nuovamente duro, adorandolo, leccandolo, baciandolo e infine rificcandoselo nell’ano, costringendo il povero valletto a scoparlo ancora. E ancora avrebbe voluto, se l’altro non fosse scappato via sconvolto, lasciandolo anelante.
Il sonno, che pur giunse alla fine, non valse a placarlo: il delirio erotico che lo aveva travolto, durò nel sonno, nei sogni in cui schiere di giovani lo attorniavano, lo sbeffeggiavano, lo possedevano…
La mattina, Decenzio tardò ad alzarsi: il valletto, che era solito svegliarlo alle prime luci dell’alba, non si fece vedere e quando ne chiese in giro, gli dissero che era scomparso durante la notte, fuggito chissà dove e chissà perché.
La fuga del valletto lo turbò: intuiva perché era scappato, anche se i ricordi della sera prima erano alquanto vaghi… vaghi, certo, ma ben presenti.
Cominciò a capire la reale portata della maledizione che Rodolinda gli aveva lanciato: quello che non aveva voluto, lui stesso era diventato: carne di donna… carne di donna assetata di maschio. Quella consapevolezza gli gelò il sangue nelle vene, corse fuori a cercarla: disposto anche ad accettare le sue profferte, purché gli togliesse di dosso quella laida maledizione. La cercò a casa, ma la casa era vuota, abbandonata; Rodolinda era scomparsa e nessuno dei vicini ne sapeva niente. Fu allora che iniziò il suo doloroso calvario: incapace di resistere alle tentazioni che lo straziavano, Decenzio prese a frequentare i luoghi più malfamati della città: prese ad aggirarsi di notte nei pressi dei bordelli, agganciando gli avventori che ne uscivano, scantonandoli in un angolo buio e convincendoli con qualche moneta a scaricare dentro di lui quello che gli restava nelle palle.
E i più lo facevano, sia sedotti dal compenso, sia per la soddisfazione perversa di fottersi un altro uomo. Certo, sapevano che era un atto contrario alla legge e alla religione, ma abituati com’erano alle brutture del mondo, di un uomo o di una donna poco gli importava, purché fosse un buco caldo e capiente da ficcarci dentro il cazzo e sborrare. Se poi gli fruttava anche qualche moneta, tanto di guadagnato. Oppure si appostava nei pressi di una taverna, in attesa che qualche avventore ubriaco uscisse a svuotarsi la vescica nell’orto: allora lo avvicinava e lo convinceva a consumare l’atto con lui e dentro di lui.
Poi, una notte, la sua sventura gli fece tentare l’approccio di un giovane, uscito a pisciare nell’orto di una taverna: purtroppo per lui, il giovane non era abbastanza ubriaco da lasciarsi infilare le mani nella braghetta, ma lo afferrò per il bavero e, dopo avergliele suonate di santa ragione, lo consegnò alla ronda di notte, che si trovava a passare proprio allora, nelle mani del sergente, che lo fece legare e portare in prigione.
L’accidente gli fece finalmente aprire gli occhi sullo stato di degradazione in cui era precipitato; così che la mattina successiva, quando fu portato davanti al magistrato, prima ancora che si disponesse la tortura, Decenzio confessò le sue colpe, aggravandone lui stesso la portata, quasi fosse smanioso di una punizione esemplare. E la punizione arrivò puntuale: per i crimini contro Dio e contro gli uomini, il magistrato lo condannò ad essere castrato e poi bruciato sul rogo.
Fu il vescovo Eugerio a salvargli la vita: il sant’uomo convinse il magistrato che ben lieve punizione sarebbero stati i pochi minuti di dolore, prima della morte, in confronto ad un vita di sofferenza e di rimorso, visti i segni di pentimento che il condannato aveva pur dato.
E fu così che Decenzio venne condannato al bando perpetuo dalla città e dal contado, sotto pena di morte, se vi fosse tornato. Avrebbe dovuto essere fuori entro il tramonto del giorno successivo ed era fatto divieto a tutti, sotto pena di scomunica e di morte, di concedere al reietto aiuto o riparo.
In quella triste mattina, quindi, Decenzio si era messo in cammino, accompagnato dai ricordi, dalla vergogna e dai rimorsi. Oltre che dalle voglie vergognose che neanche in questi momenti angosciosi lo lasciavano.
La notte, che passò rannicchiato fra le annose radici della quercia, fu terribile e insonne: ai rimorsi per la sua vita passata, si aggiunse adesso l’angoscia per il futuro. Dove sarebbe andato? Cosa avrebbe fatto? Come avrebbe potuto, se non vincere, almeno tenere a bada le terribili tentazioni che lo straziavano?
L’unica soluzione era per lui allontanarsi dal mondo, ritirarsi in un posto lontano dalla frequentazione di altre persone, di altri uomini, soprattutto. Sì, era quella la soluzione: ritirarsi in un eremo… vivere lontano da tutto e da tutti. Ma dove?
Aveva sentito di eremiti che si ritiravano nelle grotte della Tebaide… ma dove si trovava questa Tebaide?... come raggiungerla?...
Mentre sbocconcellava un tozzo di pane ormai secco, si ricordò di aver sentito dei cacciatori, anni addietro parlare di caverne su quelle montagne… caverne in luoghi inaccessibili, abitate da animali selvatici, da orsi e lupi… Forse quello era il posto adatto a lui, il posto dove avrebbe potuto redimersi agli occhi del Signore.
Finito di mangiare, si alzò e, lasciata la strada maestra, prese uno dei viottoli che si dirigevano verso i monti lontani.

Sarebbe inutile seguire passo passo il suo cammino, diciamo solo che arrivato alle pendici del monte, prese a inerpicarsi per sentieri sempre più aspri e impervi, dove anche le capre avrebbero fatto fatica ad arrampicarsi. Ma tale era il suo fervore, tale il suo desiderio di espiazione, che procedeva senza quasi sentire la fatica. Avanzò per giorni, sempre più stremato, ma sempre animato dalla voglia di andare avanti, quasi che quelle sofferenze stessero cancellando pian piano il suo passato vergognoso e facendo emergere il buono dentro di lui, quel buono che non era mai morto.
Finirono i tozzi di pane nella sacca e allora si nutrì di bacche e di frutti del bosco; si dissetò ai rivoli d’acqua, che scorrevano lungo le rocce, e ad ogni passo si sentiva stranamente più leggero, più in pace con se stesso.
Quanto durò quell’ascesa verso luoghi impervi? Forse una settimana… forse due… neanche lui lo sapeva: vari giorni erano già passati, quando cominciò a riprendere consapevolezza di sé. E finalmente giunse alla destinazione, che andava cercando.
Era in cammino da poco, dopo aver passato la notte rannicchiato sotto alcuni cespugli, quando ad una svolta del sentiero si trovò davanti un piccolo pianoro, limitato a sinistra dalla parete rocciosa, mentre a destra declinava dolcemente verso una foresta di abeti. Si fermò, impressionato dalla bellezza del luogo e dal silenzio, un silenzio appena turbato dallo stormire leggero della brezza primaverile: era giunto al termine del viaggio. Si sentì a casa: era lì che avrebbe passato i suoi giorni.
Si fece avanti, guardandosi attorno, e fu allora che si accorse di un’apertura nella parete rocciosa. La raggiunse: la frattura si allungava verso l’interno. Decenzio si fece strada fra i sassi e l’erbaglia che la ostruivano e dopo pochi passi sbucò nel buio di una caverna. Muovendosi con cautela, a tastoni, poté stabilire che era ampia almeno dieci braccia e alta da poterci stare in piedi.
Allora, tornò fuori, raccolse degli sterpi secchi e alcune pietre che gli sembrarono adatte, e dopo averci lavorato abbastanza riuscì ad accendere un focherello. Andò, quindi, a raccogliere un ramo caduto di abete, gli fece prendere fuoco per bene e con quella torcia rudimentale tornò nella caverna: come aveva immaginato, era ampia e asciutta, e non sembrava essere la tana di altri animali.
Preparò, allora, un focolare vicino all’entrata, vi accese il fuoco e andò subito a raccogliere altra legna. Poi si preparò un giaciglio con erba secca e rametti, e finalmente si distese in quello che per la prima volta, da chissà quanto tempo, gli parve un vero letto.
Felice di quella sistemazione, Decenzio decise di fermarsi, organizzando le sue giornate fra la raccolta di bacche e funghi, e la caccia a piccoli animali, che scuoiava con un coltello rudimentale, ricavato da una scheggia di roccia, e poi cuoceva sul fuoco, infilandoli ad un rametto a mo’ di spiedo. Per colmo di fortuna, a qualche centinaio di passi più in basso, aveva scoperto una piccola sorgente, che formava un pozza cristallina e in questo modo sopperiva a tutti i suoi bisogni.
Memore, infatti, delle comodità della sua vita precedente, Decenzio prese ben presto l’abitudine di immergersi tutte le mattine in quella pozza gelida, onde lavarsi a fondo la sporcizia del corpo e in un certo senso anche dell’anima.

Tutto sembrava procedere come il suo cuore desiderava, e fu allora che il destino si ricordò di lui.

(continua)
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