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Il tormento di un padre (Finalmente in culo) - 3


di LuogoCaldo
13.04.2022    |    26.464    |    20 9.7
"Iniziai a gridare, mordendogli il collo con trasporto..."
Pensavo che, dopo quella notte, la bestia fosse stata sfamata e che non sarebbe tornata così presto, ma mi sbagliavo.
Fu sufficiente che, il giorno seguente, sotto la doccia della palestra, Annibale mi si avvicinasse nudo come era abituato a fare.
Si infilò nella cabina mentre pensavo a tutt’altro e, con lo sguardo rivolto verso il basso, lasciavo che il getto dell’acqua mi massaggiasse la nuca.
“Ce l’hai il bagnoschiuma, pà?”
Lo guardai con gli occhi sbarrati.
“Il bagno schiuma … l’ho dimenticato …”
Non riuscivo a pronunciare una parola.
Lui mi fissò perplesso, afferrò la bottiglietta e cominciò ad insaponarsi dinanzi a me.
La sua pelle era bianca come il latte e la schiena formava una curva sinuosa che declinava nel rilievo di due natiche perfette.
Provai l’impulso di piegarmi su di lui, di mordergli il collo e di far scivolare la punta della lingua sul crinale della spina dorsale, fino al solco dei glutei.
Immaginai il sapore di vaniglia del suo sfintere e la pressione libidinosa con cui quell’anello magico avrebbe potuto risucchiare la mia mazza.
Mi sentii come un animale in gabbia.
Sgusciai fuori dal vano ancora coperto di sapone e, con l’asciugamani troppo corto, mi affrettai a coprire l’erezione che s’ era risvegliata poderosa tra le mie cosce.

Nel tragitto verso casa rimasi in silenzio, mentre Annibale trafficava col cellulare.
Mi sentivo a disagio e lo sguardo non faceva che cadermi sulle sue gambe muscolose.
“Ascolta” Esordii. “Stasera devo tornare in ufficio, domani ho un’udienza importante …” Mentii. “È un problema se resti solo per qualche ora? Ho bisogno di rivedere il fascicolo …”.
Lui mi guardò stupito. “Ma non puoi farlo da casa?”
“L’ho dimenticato a lavoro”. Risposi.
“Ok ... Va bene, certo …”. Si limitò a dire mentre smontava dalla vettura e sbatteva la portiera.
Lo seguii con gli occhi e, senza pudore, rimasi a guardare il culo che dondolava fasciato dentro ai jeans attillati.
Ero come ipnotizzato e solo quando il mio bambino fu dentro all’androne riuscii ad invertire il senso di marcia e puntai verso la piazza della città.
Avevo il cazzo duro come il marmo e l’immagine di quel sedere impressa in fondo alle pupille.
Mi accarezzai in mezzo alle cosce e mi scoprii ad un tempo spaventato e compiaciuto di quel vigore tardivo.

Arrivai che era ancora molto presto.
Il profilo dei banchi del mercato si stagliava scuro contro il disco della luna.
In mezzo al crocicchio dei prostituti individuai subito Iryl, la sua figura sottile, il modo effeminato con cui sollevava una gamba quando aspirava dalla sigaretta.
Avvicinai con sicurezza l’auto al marciapiede, proprio dinanzi al punto dove si trovava il ragazzo.
Lui mi salutò con un gran sorriso e si fece accosto al finestrino.
“Ehi … Ma allora un po' ti piaccio?!?” Mi chiese canzonatorio. “Sentiamo, come ti chiami maschione?”
Cercai nella mente un nome di fantasia ma non fui abbastanza pronto. “Maurizio …”. Risposi imbarazzato. “Mi chiamo Maurizio …”.
Mi pentii subito di avergli detto la verità. “Ascolta … Che t’importa come mi chiamo?” Tagliai corto mostrandogli i soliti cinquanta euro sulla patta gonfia dei calzoni. “Puoi venire? Sei libero?”
Lui si passò la lingua sopra al labbro superiore. “Per te sempre”. Rispose.
E montò sulla vettura.
Mi diressi verso la periferia.
Per tutto il tragitto Iryl cicalò in modo insopportabile. “Che-bello-che-sei-tornato, mi-era-piaciuto-tanto-il-tuo-cazzone, non-vedo-l’-ora-di-riassaggiarlo”. E, mentre mi blandiva,la puttana mi slacciava la zip dei pantaloni e mi accarezzava la minchia sopra alle mutande.
Ero in procinto di esplodere. Mi godevo quella masturbazione superficiale e pensavo al culo liscio di mio figlio.
Imboccai una strada di campagna e guidai fino al punto in cui non mi sembrò di essermi lasciato il resto del mondo alle spalle.
Sentivo il fiato corto della troia sul collo, le labbra che mi baciavano la guancia e la lingua che scivolava sopra al lobo dell’orecchio.
Quando riuscii a fermarmi mi avventai sul ragazzo e gli strappai di dosso i vestiti.
Lo costrinsi ad allargare le gambe sopra al cruscotto e cominciai a tormentargli lo sfintere mentre gli infilavo la lingua così in fondo alla gola che riuscivo ad accarezzargli le tonsille.
La zoccola era completamente in estasi, lasciava che affondassi le dita dentro alle sue viscere e si faceva graffiare il viso dalla barba che quella mattina non avevo fatto in tempo a radere.
Non ero abituato a quell’intimità carbonara ma fu lui a guidarmi.
Reclinò il sedile del passeggero e mi attirò sopra di sé, accogliendo il peso del mio corpo tra le sue cosce.
Cominciò quindi a spogliarmi con la foga di chi ha bisogno di sentire il contatto della pelle nuda.
“Ho pensato a te tutta la notte”. Sussurrò mentre mi mordeva le labbra. “Avevo paura che non saresti più tornato”.
Lo guardai stupito e, allo stesso tempo, compiaciuto.
I suoi occhi erano verdi come l’aurora dei cieli del nord e le labbra turgide e rosse come il succo delle ciliegie d’estate.
“Ti prego fottimi”. Mi supplicò ansimando. “Dimmi quanto mi desideri … Dimmi che ti senti fortunato ad avermi … Dimmelo.”.
“Si … Si”. Gli feci eco per accontentarlo. “Ti desidero. Ti desidero tanto …”
E intanto tenevo gli occhi chiusi, cercando di evocare l’immagine dei glutei di Annibale sotto la doccia della palestra.
Iryl dovette scambiare il mio sforzo di memoria per inesperienza e, per mettermi a mio agio, prese a baciarmi dolcemente le guance.
Sollevò il bacino, intrecciò le gambe dietro alle reni e mi prese l’uccello in mano, dirigendo il glande verso la sua rosetta.
Quella premura m’intenerì.
Sistemai il braccio sotto alla nuca del ragazzo per essere sicuro che stesse comodo, avvicinai la mia bocca alla sua e gli riservai la stessa attenzione che avrei riservato a mio figlio.
L’urgenza di qualche minuto prima era sparita e aveva lasciato il posto ad una sensazione di sorpresa.
Affondavo la lingua tra le labbra del piccolo, inebriato dal profumo di frutta che emanava dalla sua pelle di velluto, e, intanto, spingevo il cazzo con violenza dentro di lui.
La mazza scivolava come un coltello dentro al burro e, quando fu in fondo al retto, lo sfintere la serrò in una morsa decisa, come se volesse risucchiarla.
Era la prima volta che sperimentavo quella sensazione: cominciai a sudare per il piacere e ad ansimare rumorosamente dentro all’orecchio del mio amante.
Il culo del ragazzino era molto elastico ma lo spessore del mio ariete non sfigurava.
“Ahhhh … Sbattimi amore”. Urlava. “Trombami … trombami come una troia. È così grosso, mi stai sventrando …”.
Era fuori di sé.
Mi conficcò le unghie nella pelle all’altezza delle spalle e le fece scivolare lungo la schiena, fino ad afferrare i glutei contratti.
Quel dolore mi eccitò.
Cominciai a pompare la minchia come un indemoniato e più gli sbattevo i coglioni contro l’ano più lo facevo gridare. “Aaaaah … aaaah mi stai facendo impazzire …”.
Sentii il pene duro schiacciato tra il mio ventre ed il suo e, mentre mi dimenavo come un trapano, avvertii un fiotto caldo sulla pancia, all’altezza dell’ombelico, e capii che la troia aveva goduto sotto di me.
Glie lo buttai al culo con vigore crescente continuando a pensare ad Annibale e, a mia volta, presi a gemere, affondando il viso imperlato di sudore nella piega del suo collo, tra la spalla e la guancia di pesca.
“Vieni”. Mi incitava con dolcezza. “È bellissimo così … vieni amore … aaah … aaaah … vieni …”.
Non riuscii più a trattenermi. “Sei una troia”. Iniziai a gridare, mordendogli il collo con trasporto. “Sei la troia di papà … mmmh …”.
E, mentre mi godevo i suoi baci innamorati, allungai le gambe per assestare colpi ancora più forti, avvertii che i coglioni si gonfiavano a dismisura e finalmente esplosi, riversando nel suo retto tutto il seme che avevo in corpo.
Rimasi a lungo tra le cosce del ragazzo, compiacendomi delle sue attenzioni, e lasciai che il cazzo diventasse molle, mentre il battito del cuore rallentava
“Ti prego non sparire”. Insistette lui. “Promettimi che tornerai …”.
Non sapevo cosa rispondere.
Gli infilai la lingua in gola per farlo smettere di parlare e per gioco gli morsi le labbra ogni volta che accennava a dire qualcosa.

Quando lo riaccompagnai ai chioschi la notte era ormai alta.
“Sei sicuro che vuoi che ti lasci qui?” Provai a domandare. “È già tardi, se vuoi ti porto a casa …”.
“No tranquillo, qui va bene …” Rispose distrattamente.
“Senti … non sono fatti miei … però non dovresti …”
“Quando torni a trovarmi?” Mi interruppe lui.
“Presto … torno presto, promesso …”. Mentii.
Iryl avvicinò il suo viso al mio e mi diede un bacio veloce prima di scendere e correre verso i banchi del mercato.
Mi si strinse il cuore.
Rimasi a guardarlo nello specchietto retrovisore.
Era solo: i suoi amici non c’erano più.
Provai a forzarmi e fui sul punto di riavviare l’auto, quando, all’improvviso, scorsi un uomo molto alto che si avvicinava furtivamente alla piazzola.
Avvertii una sorta di fastidio all’idea che il piccolo sarebbe stato di qualcun altro quella notte.
Feci un sospiro profondo e deglutii rumorosamente, per ingoiare quella punta d’inaspettata gelosia. Poi, d’un tratto, mi accorsi che il marcantonio aveva raggiunto il ragazzo e stava cercando di trascinarlo via con la forza.
Mi precipitai fuori dalla vettura.
“Ti ho detto che mi devi lasciare in pace …”. Urlava Iryl opponendo resistenza. “Mi fai male così”
“Non posso … Non so più come fartelo capire … Ma ti rendi conto che …”
“Ehi …”. Lo interruppi a voce alta. “Lascialo … Ti ha chiesto di lasciarlo …”
“E tu chi cazzo sei?” Sbottò l’avventore.
Mi sentii mancare.
La voce di Annibale mi rimbombò nella testa. “Hai un cazzo buonissimo, buonissimo … Beata tua moglie, Alessandro. Sa ancora di fica … Mmmh … Mmmh …”.
L’energumeno che avevo sorpreso in casa mia a montare mio figlio il pomeriggio del giorno precedente era lì dinanzi a me.
“Si … Siiii ingravidami …Ti prego, non uscire … ingravidami come hai fatto con tua moglie… Mmmm … mmmm …” Continuava a urlare il mio bambino.
L’uomo provò a dire qualcosa ma io non afferrai neppure una parola del suo discorso.
Il sangue mi salì al cervello e, in preda a una febbre che non avevo mai provato in precedenza, mi avventai su di lui e iniziai a colpirgli ripetutamente il volto con le mani.
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