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Gay & Bisex

Nei panni di mia madre - 1


di LuogoCaldo
31.12.2021    |    20.354    |    5 9.3
"Rannicchiato sulla branda ai piedi del letto io fingevo di dormire e, con gli occhi socchiusi e la mano ben piantata sul cazzo, li guardavo scopare..."
Ero seduto sull’asfalto con le gambe incrociate.
Il fuoco crepitava dentro al bidone e un forte odore di benzina aleggiava nell’aria.
Le calze a rete mi fasciavano le ginocchia e le caviglie erano magrissime sotto al gonnellino scozzese.
Nel drive-in c’era una strana quiete.
Gli avventori erano pochi e, ogni tanto, qualche auto sfrecciava sulla strada oltre l’area di servizio.
“Sarà che fa troppo freddo!” Pensai mentre sbadigliavo.
Ero stanco di aspettare, volevo solo andare a letto.
Poco più avanti la roulotte sobbalzava e le urla di piacere rompevano il silenzio.
“Sei bellissima Manila. Mettimi i capezzoli in bocca, voglio succhiarteli tutti”.
“Ahhh si, Tony”. Rispondeva mia madre. “Montami. Sei l’unico che riesce a farmi godere. Hai l’uccello più grosso che abbia mai visto”.
Mi venne in mente quello che mi diceva sempre. “Ricordati che la cosa più grande di un maschio è il suo ego, non il suo cazzo: se gridi mentre ti scopa dura pochissimo e te lo levi di dosso”.
E infatti lo stallone già stava ansimando e i colpi violenti delle reni scuotevano il veicolo sul manto ghiacciato.

“Leo, mi serve la roulotte”. Mi aveva detto la mamma poco prima. “Sbrigo l’ultimo cliente e a mezzanotte stiamo insieme! Vedrai che regalone ti abbiamo preso io e Timoteo. Sarà il compleanno più bello di sempre!”.
Eravamo nell’area di servizio da alcuni mesi.
Alla fine di ogni estate cambiavamo e ci spostavamo come le rondini.
Seguivamo il percorso della strada statale, da Nord a Sud, e sfuggivamo alle attenzioni degli assistenti sociali. Il camper era la nostra casa.
Ero cresciuto su quella distesa di cemento, guardando il mondo con gli occhi di Manila e desiderando tutto quello che desiderava lei.
Mia madre era stata il mio unico modello.
Avevo cinque anni quando, per la prima volta, avevo scoperto il suo guardaroba.
Me ne ero innamorato.
Ricordo che mi ero preparato davanti allo specchio, avevo steso molte passate di rosso sulle labbra e m’ero messo a danzare dentro al camper, mentre le frange dei vestiti svolazzavano intorno.
Nelle settimane a seguire avevo ripetuto quel rituale ogni sera.
“Come sei bella Lea”. Mi aveva blandito la mamma. E, divertita, aveva riso insieme alle lucciole del parcheggio.
“Ha dei lineamenti così delicati”. Avevano continuato le altre. “E senza peli è più carina di molte ragazze … anche più di Manila …”.
“Quando sarai grande ci ruberai tutti i clienti!” Avevano sentenziato.
“E poi è magra. Non tenderà ad ingrassare come capita a noi donne. Ha un culetto che farà girare molti uomini …”
Mi ero sentito lusingato.
Sotto la doccia avevo cominciato ad ammirare il mio fisico, lo spazio pronunciato tra le gambe, le ossa dello sterno che premevano sotto la pelle, le clavicole sporgenti.
Avevo capito che mi piacevo e, giorno dopo giorno, avevo iniziato a nutrire il mio ego di piccolo efebo affamando il mio corpo.
Mi ero fatto crescere i capelli, avevo nascosto gli occhi sotto a numerose passate di mascara e avevo lasciato che Lea soffocasse Leonardo dentro agli abiti succinti di sua madre.

“Quanto sei calda Manila … così, così …. che fichetta d’oro che hai … nessuna ce l’ha come te in tutto il parcheggio … mmmh ... allarga bene le cosce dai dai …”
La mamma rise divertita. “Perché, le hai provate tutte?”
“Quasi”. Rispose il maiale. “Ma da te ci torno sempre bimba, lo sai”.
“Sei uno stallone … mi fai impazzire, bravo, bravo sfondami …”. Lo incoraggiava. “Che maschio …”.
La roulotte dondolava mentre io versavo altro alcool sul fuoco.
La foga rumorosa del toro mi stava facendo eccitare.
L’avevo visto entrare poco prima.
Era il classico camionista di mezza età. Un forte odore di birra e il ventre straordinariamente pronunciato.
Quando era arrivato mi aveva fissato le cosce.
Io gli avevo sorriso maliziosamente e lui aveva avvicinato le mani al pacco, aveva stirato la stoffa dei calzoni e, strabuzzando gli occhi, mi aveva mostrato la sua erezione.
Doveva aver pensato che sotto la gonna nascondessi una piccola conchiglia bagnata ed ero praticamente certo che, mentre affondava la nerchia nella fica di mia madre, gli sarebbe piaciuto passarmi la lingua tra le gambe e leccare i miei umori.
Mi accomodai su un fianco, appoggiai il gomito sull’asfalto e, quando fui certo che nessuno poteva vedermi, mi misi due dita nella rosetta, spingendole in fondo ogni volta che lo stallone scuoteva il veicolo.
“Mi stai facendo venire … si … si … troia ahhhhh …”. Lo sentivo urlare, mentre mi accarezzavo lo sfintere e, infilando l’altra mano sotto la camicetta, stringevo il seno che avrei voluto avere.
Ero tutto bagnato.
Volevo che gli uomini mi guardassero nello stesso modo in cui guardavano mia madre e mi rincorressero lungo la strada statale come rincorrevano lei.
L’uccello mi si gonfiò dentro al perizoma e fui quasi sul punto di tirarmelo fuori e segarmi con forza quando, dentro l’abitacolo, tornò il silenzio.
La porta del camper si aprì dopo qualche secondo.
“Sei stato favoloso Tony”. Disse mia madre.
Indossava una vestaglia lucida con gli orli di piuma.
“Grazie a te piccola, ci si vede presto”. Rispose l’uomo e, palpandole il sedere, le stampò un bacio rumoroso sulla guancia, mi fece l’occhiolino e si allontanò verso il camion fermo davanti al drive-in.

“Eccomi qua tesoro”. Trillò la mamma mentre brandiva una bottiglia di Clicquot. “Mancano meno di dieci minuti”.
“Timoteo non viene?” Domandai annoiato. Non vedevo l’ora di infilarmi sotto le coperte.
“A mezzanotte, Leo. Vedrai, vedrai …” Disse lei laconica e, stappato champagne, tornò nell’abitacolo per versarlo dentro ai calici.
In lontananza le luci del camion si accesero come se fossero stelle e fluttuarono nel buio, verso l’uscita dell’area di servizio.
Contemporaneamente una Toyota nera imboccò l’accesso e, rallentando, si avvicinò al camper, puntando gli abbaglianti nella mia direzione.
Un grosso nastro rosa fasciava la vettura e, sul tetto, si arricciava in un fiocco voluminoso.
L’autista aprì la portiera e smontò a terra.
Era un ragazzo alto e muscoloso. I lunghi capelli biondi gli cadevano sulle spalle e scivolavano in avanti, sopra ai pettorali gonfi.
Le cosce sembravano esplodere dentro ai jeans aderenti.
“Buon compleanno Leo”. Cinguetto' la mamma porgendomi lo champagne.
Ero frastornato. “Ma cosa ...?”
“È Timoteo tesoro”. Disse lei sorridente. “E quest’auto è il regalo per i tuoi diciotto anni! Auguriii!”.
“Buon compleanno piccolo!” Mi salutò il ragazzo mentre spegneva gli abbaglianti. Finalmente riuscii a metterlo a fuoco.
“Ti piace?” Mi chiese.
E, dopo aver preso il calice che la mamma gli stava allungando, aggiunse: “È per te, così non dovrai più stare al freddo”.
“È bellissima” Risposi. “Grazie, non me lo aspettavo”.
Non sapevo cosa dire. Ero davvero felice.
“Ora sei ufficialmente un uomo”. Sentenziò lui e, sedendosi accanto a me, mi fissò le gambe affusolate.
“Dovresti smettere di conciarti così”. Mi disse facendomi l’occhiolino. “Sembri proprio una femmina. Se non sapessi che hai l’uccello t’avrei già strappato le mutande a morsi”
La mamma rise giuliva e si sedette accanto a lui, accarezzargli l’interno delle cosce, vicino al pube.
“La proviamo insieme domani?” Gli chiesi indicando il mio regalo.
Lui sorrise e, mentre beveva, mi rispose con un cenno della testa.

Timoteo era entrato nelle nostre vite qualche anno prima, dopo che tre ragazzi si erano barricati con Manila dentro alla roulotte.
Erano rimasti lì tutta la notte, avevano abusato di mia madre come se fossero animali, incuranti delle mie minacce, e si erano decisi ad andare via solo all'alba.
Lei non aveva più lavorato per una settimana fino a che, un giorno, aveva sentenziato: “Abbiamo bisogno di un angelo custode, Leo. Veglierà su di noi e farà in modo che non ci succeda niente di male”.
Timoteo era il protettore di molte lucciole.
La sua giurisdizione si estendeva lungo tutto il tratto centrale della strada statale.
Era entrato nel giro quando aveva poco più della mia età e ora, alla soglia dei quarant’anni, gestiva un impero e controllava i traffici di numerose aree di servizio.
In cambio della sua attenzione il ragazzo prendeva una piccola percentuale sui guadagni della mamma e, quasi ogni sera, restava nel camper, godendosi i servizi per i quali così tanti uomini erano disposti a pagare.
Rannicchiato sulla branda ai piedi del letto io fingevo di dormire e, con gli occhi socchiusi e la mano ben piantata sul cazzo, li guardavo scopare.
“Sei l’unica con la quale passo la notte”. Le diceva tenero. “Finirà che mi innamorerò di te”.
E mentre la sovrastava col suo corpo imponente non smetteva mai di baciarla, coprendole il volto con i lunghi capelli biondi.
Lei serrava le cosce attorno al suo bacino e, abbracciandolo, gli accarezzava le spalle.
“Se sto con te mi sento al sicuro”. Sussurrava. “Credo di essere già innamorata di te”.
E, quando capiva che lo stallone era sul punto di venire, faceva scivolare le mani sulla sua schiena, le chiudeva sopra ai glutei rotondi e se lo spingeva tra le cosce.

“Resti da noi?” Gli domandai.
Lo champagne cominciava a darmi alla testa.
“Si, ma vado via presto”. Rispose buttando giù l’ultima gollata. “Domattina ho molto da fare”.
“Buonanotte allora”. Salutai esausto e, salito sul camper, mi infilai sotto le coperte e mi addormentai.
Sprofondai in un sonno senza sogni, ma i gemiti di Manila mi svegliarono prima dell’alba.
Lei era nuda e stava cavalcando Timoteo.
Muoveva il bacino sopra di lui e inarcava la schiena.
Le braccia si levavano oltre la testa e le dita sfioravano il soffitto della roulotte.
L’angelo biondo la guardava con la bocca aperta e l’espressione stravolta dal piacere. Le stringeva i grossi seni, le tormentava i capezzoli e si godeva quel dondolare voluttuoso.
Il mio cazzo divenne durissimo.
Pensai che mi sarebbe piaciuto essere al posto di mia madre e possedere con la stessa indolenza il corpo di quell’adone.
Mi afferrai l’uccello sopra al pigiama e cominciai a strofinarlo, senza fare rumore.
Guardavo i piedi del ragazzo, le cosce dure come tronchi e, sotto al bacino della mamma, in mezzo alle gambe, i grossi coglioni rilassati, pronti a scoppiare da un momento all’altro.
Diedi un morso al cuscino, per trattenere i sospiri.
Lui mi guardò. Aveva capito che ero sveglio.
Attirò la mamma verso di sé, assicurandosi che il ventre di lei aderisse completamente al suo, e, premendole una mano sulla schiena, prese a chiavarla in quella posizione, dolcemente, puntando gli occhi nella mia direzione.
Il sole stava sorgendo e la luce filtrava dentro all’abitacolo.
“Fa piano sennò si sveglia”. Sussurrava lei in estasi.
“Tranquilla troia”. Rispondeva lui. “Tranquilla. Pensa a squirtare”.
Ero eccitatissimo.
Volevo partecipare al loro piacere.
Mi feci coraggio e molto lentamente mi rigirai sulla branda, mi abbassai i pantaloni del pigiama e, poggiandomi sul gomito, scostai il lenzuolo, offrendo al toro lo spettacolo delle mie natiche spalancate.
Con il capo rivolto verso di lui mi portai le dita alla bocca, le bagnai di saliva e, per un po', mi accarezzai lo spazio tra le palle e il buco del culo.
Timoteo sgranò gli occhi e cominciò a dimenare le reni. “Sta ferma” Diceva, mentre, piegando le ginocchia, spingeva l’uccello dentro di lei. “Resta così che sto per sborrare”.
Il suo respiro divenne rapido e faticoso.
“Brava, sei bellissima …”. Le diceva. “Mi stai facendo perdere la testa”.
Capii che non avrebbe resistito molto.
Decisi di fare la mia parte.
Mi passai la lingua sulle labbra, lo fissai con gli occhi languidi e iniziai a masturbarmi per lui, inserendo le dita nello sfintere.
Il maiale mi rivolse uno sguardo da pazzo.
Era chiaro che, se avesse potuto, si sarebbe piantato il mio sedere tra le cosce e me lo avrebbe spaccato.
Allargò le braccia sulle lenzuola e si contorse come una biscia sotto al corpo di mia madre che, sopraffatta da quella foga improvvisa, ansimò rumorosamente.
Orgoglioso di quella reazione continuai a dilatarmi la rosetta e, mordendomi le labbra per soffocare i gemiti, affondai tre dita dentro al buco, spingendo bene le natiche all’indietro per consentirgli la visuale.
I talloni del porco scivolarono ripetutamente sul materasso, le ginocchia si piegarono e il bacino scattò, assestando un colpo violento tra le cosce della mamma.
“Puttana”. Mugolò con gli occhi puntati verso di me e, digrignando i denti, inarcò la schiena, rivolse lo sguardo al soffitto e scaricò nella fica tutto il contenuto dei suoi coglioni.

Fissai i suoi muscoli mentre si rivestiva e gli guardai il culo quando abbandonò la roulotte.
Avevo il cazzo di marmo e mi stavo segando come un dannato.
La mamma dormiva sul letto con le gambe aperte e, tra le pieghe della vagina, il seme di Timoteo rifletteva i primi raggi del giorno.
Pensai che avrei voluto leccarlo direttamente da quella conchiglia.
Stavo per sborrarmi in mano quando dei colpi sordi rimbombarono contro la porta.
“Apri troia! Apri!” Urlò una voce maschile. “Stavolta non la fai franca”.
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