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Gay & Bisex

Nei panni di mia madre - 4


di LuogoCaldo
10.01.2022    |    11.208    |    6 9.5
"Avevo i loro sguardi sopra di me e quasi riuscivo a percepire lo schiocco delle lingue che leccavano labbra e spingevano la saliva in fondo alla gola..."
Fabrizio mi riaccompagnò al camper.
Nel parcheggio la festa era finita e la strada era un tappeto di bottiglie rovesciate e mozziconi fumanti.
“Perché non vieni a dormire da me?” Mi chiese per l’ennesima volta.
“Dai non insistere …” Risposi. “Devo rientrare … è meglio così”.
Lui annuì.
La luna era alta nel cielo e l’asfalto ne rifletteva la sagoma, come la superficie di un lago.
“Ascolta Lea …”. Esordì imbarazzato. “Ho bisogno dirti una cosa ...”
Feci spallucce: “Vai”.
“Io … io non so quello che mi è successo ma … cristo, non sono bravo, scusa … il fatto è che ho pensato a te tutto il giorno …” Sorrise. “Per me è strano sai … non ho mai provato nulla di simile per una ragazza …”.
“No, no, no!”. Pensai. “Ma perché …”.
“Mi piace stare con te … vorrei conoscerti meglio … se va anche a te ovviamente”.
Il freddo della notte gli arrossava la pelle agli angoli della bocca e i suoi occhi scintillavano nel chiarore dei lampioni.
“Io … Io per te provo la stessa cosa”. Avrei voluto dirgli.
Ma come potevo farlo?
“Lui non sta parlando con Leonardo”. Ricordai a me stesso. “Lui sta parlando con Lea”.
E per la prima volta odiai la mia amica e provai l’impulso di togliermi la maschera che m’ ero cucito addosso.
“Guardami bene”. Volevo urlargli. “Guarda chi sono veramente e ORA dimmi se vuoi stare con me”.
Puntai i miei occhi dentro ai suoi. “Senti io non credo …”.
Non feci in tempo a rispondere che lui mi abbracciò, mi baciò delicatamente e mi spinse contro la lamiera della roulotte.
Le sue labbra erano morbide e la sua lingua scivolava nella bocca senza urgenza mentre la mano si chiudeva sopra alla mia e la guidava dentro ai pantaloni della tuta.
“Vedi che cosa mi fai …”. Sussurrò
Accarezzai la sua erezione sopra le mutande: il tessuto era bagnato ed emanava un forte odore di maschio.
“Ti desidero da morire Lea …andiamo a casa mia ti prego … ho bisogno di mettertelo dentro ...”.
“Ne ho bisogno anche io”. Pensai.
“Vieni” Lo incitai. “Vienimi in mano” E, superato l’elastico degli slip, serrai il suo membro tra le dita.
Fabrizio appoggiò le mani contro il metallo del camper, mi infilò la lingua in gola e allargò le cosce per godersi la sega.
L’uccello duro scorreva umido dentro al palmo, lubrificato dai suoi stessi umori.
“Ti voglio … ti voglio …”
“Rompimi il culo”. Pensai “Ho bisogno di sentirti scaricare”.
E invece, turbato da quella foga, accelerai la masturbazione.
“Così mi fai sborrare … MMMMMH”.
“Godi”. Lo incitai.
Il porco piegò le gambe e provò a farmi scivolare la mazza tra le cosce.
Il cuore saltò un battito e riprese a pompare velocemente.
“Godi”. Ripetei con un filo di voce stringendogli più forte l’uccello.
Quel cazzo sembrava avere vita propria.
Sussultava tra le mie mani e mi colpiva il pube, alla ricerca di un buco in cui affondare.
Capii che se avessi continuato Fabrizio avrebbe provato a scoparmi.
Mi inginocchiai, glie lo presi in bocca e lasciai che si sfogasse.
Mi chiavava con violenza e intanto mugolava, con la fronte appoggiata alla lamiera: “Amore …” Diceva. “Amore … È bellissimo … è bellissimo …”.
E mentre gli accarezzavo le cosce e gli afferravo le natiche tra le mani sentii che l’uccello si gonfiava all’inverosimile e scaricava nella gola tutto il contenuto dei suoi coglioni.

Quando entrai nella roulotte Manila mi fissò seria.
Sedeva sul letto con le gambe incrociate e sfogliava una rivista aperta sul lenzuolo.
Timoteo era sdraiato accanto a lei, con una canna tra il pollice e l’indice ed una spirale di fumo che gli usciva dalla bocca.
“Quindi ora te la fai col figlio di Gerardo?” Mi chiese la mamma.
Capii subito che era arrabbiata.
“Si … cioè no … è solo che …”. Provai a giustificarmi.
“Ho sentito tutto non mentire”. Sbottò. “Ti chiama Lea … non gli hai detto che sei un ragazzo?”
Non sapevo cosa rispondere.
“Cristo Leonardo ma cosa stai combinando? Non si prendono in giro le persone in questo modo”. Il tono della sua voce era isterico.
“Noi ci viviamo qui dentro”. Mi disse. “Ci possono mettere in strada da un momento all’altro. Lo capisci o non ci hai pensato? Te ne frega qualcosa almeno…? Voglio che domani tu vada da quel ragazzo e che gli racconti la verità!” Sentenziò.
Provai ad oppormi. “Ma …”.
“Niente ma”. Urlò lei. “Sei un uomo. Se hai una storia con un altro uomo devi dirglielo. Domani ci parli e basta. Hai capito?”.
Risposi con un filo di voce: “Ho … paura”.
“Paura di cosa?”
“Ho paura che lui si allontani”. Confessai.
Manila mi guardò con tenerezza ma fu irremovibile.
“Vedrai che capirà”. Mi disse. “Ma tu non puoi continuare a mentirgli”.
“Dai non lo vedi che è in difficoltà”. Intervenne Timoteo.
“Tu non …”
“Non mi voglio impicciare … ehi calmati, dico solo che ha capito … giusto piccolo che hai capito?”
Annuii.
“Avanti non fare quella faccia … dai facciamoci un giro, andiamo a provare la macchina, vieni”.

La strada statale era deserta.
Timoteo premeva il piede sull’acceleratore e lanciava l’automobile a tutta velocità.
Gli alberi intorno erano sagome scure che scorrevano veloci contro il cielo stellato.
“Fila che è una meraviglia”. Mi disse.
Le sue cosce erano enormi dentro ai jeans attillati e il cazzo che avevo visto penetrare la mamma la notte precedente gli riempiva il pacco.
“Senti Leo”. Esordì. “Io lo so come ti senti. Conosco tanti ragazzi come te”.
Poi mi guardò serio e proseguì: “Il tuo problema è che hai un orizzonte troppo ristretto. Il parcheggio non è abbastanza per una persona così speciale. Ci sono luoghi dove le creature come te sono venerate”.
Lo fissai interrogativo.
“Ascolta”. Proseguì. “Ti porto in un posto stanotte, d’accordo?”.
Mi sentivo confuso.
Pensavo che l’indomani avrei dovuto affrontare Fabrizio e che, probabilmente, l’avrei perso.
Mi limitai ad annuire con poca convinzione.
L’auto abbandonò la strada statale e si immise nel centro urbano, per fermarsi in un vicolo, dinanzi ad un piccolo cancello nero.
“Qui sarai libero di essere quello che vuoi”. Mi avvisò Timoteo. “Lascia in auto Leonardo e fai venire Lea insieme a me”.
All’ingresso un ragazzo allampanato ci salutò calorosamente.
“Ho portato un’amica”. Mi presentò Timoteo. “Lei è Lea”.
Il ragazzo ricambiò il saluto e ci fece passare sorridendo. Il bianco dei denti rifulgeva come madreperla.
Scendemmo alcuni gradini e percorremmo un tunnel di pietra col soffitto così basso che fui costretto a chinare il capo.
Il locale era una grande stanza circolare che assomigliava ad una cripta.
“Doveva essere una chiesa …” Pensai.
Al centro c’era una specie di altare e, sopra di esso, la mirror-ball proiettava fasci di luci stroboscopiche nell’ambiente circostante.
Il volume della musica era elevatissimo.
Notai che le pareti perimetrali erano fatte di vetro e che, dietro a quei vetri, come dentro ad un acquario, alcune ragazze danzavano sinuosamente.
Al di qua delle teche gli ospiti contemplavano lo spettacolo in adorazione e, ogni tanto, qualcuno di loro si avvicinava ad una tenda viola e, scambiata qualche parola con l’energumeno che la presidiava, scompariva all’interno, mentre una delle ballerine lasciava il proprio alloggio e veniva sostituita da un'altra.
“Quelle che vedi sono tutte ninfe …” Mi disse Timoteo. “Proprio come te. Questi uomini le desiderano più di quanto desiderino qualsiasi altra donna … È questo che ti piace, no?” Mi chiese.
Annuii incredulo. Nessuna di quelle ballerine aveva qualcosa che non fosse femminile.
“Ti va di esibirti per loro?” Mi domandò.
E, prima che potessi rispondere, mi mise una mano sulla schiena e mi spinse oltre la tenda. “Vai” Mi incitò. “Divertiti”.
Un ragazzo eccentrico con i capelli ossigenati e lo sguardo simpatico mi accolse sorridente.
“Ciao io sono Rick, gestisco il dietro-le-quinte”. Si presentò. “Tu sei la nuova amica di Timoteo?”. Mi chiese.
“Si … Lea”.
“Beata te …”. Commentò lui e mi fece l’occhiolino.
“Allora Lea”. Mi disse mentre controllava il cellulare. “Sei la prossima! Questa sarà la tua vetrina, appena Janet esce tu entri … preparati che quella va a ruba, non ha mai dovuto esibirsi per più di cinque minuti …”
Lo guardai interrogativo: “Ma io non so cosa fare …”. Obiettai.
“Devi farli impazzire amore … Non fare l’angioletto, con quel visino l’avrai fatto un milione di volte …”.
Lo schermo del telefono si illuminò. “Oh ecco … mi scrivono che Janet è presa …” Poi si affacciò sulla porta della vetrina ed urlò: “Tesoro esci! Hai già degli ammiratori”.
La ragazza che mi aveva indicato come Janet dondolò ancora un po' le natiche per i suoi spettatori e, inviato loro un bacio con la mano, lasciò la vetrina.
“Sono nella cabina centoquattro” Le disse il ragazzo.
E, mentre lei correva in fondo al corridoio, si rivolse a me: “Avanti sbrigati è il tuo turno”. E mi spinse dentro.

Le casse pompavano musica psichedelica ad un volume elevatissimo.
Dietro la vetrina mi sentivo come in gabbia: gli uomini si avvicinavano alla teca e toccavano la parete.
Pensai che avrebbero voluto posare le loro dita sulla mia pelle e vidi che molti di loro si portavano le mani sul pacco e impugnavano le grosse protuberanze sotto alla stoffa tesa dei calzoni.
Cominciai a muovermi con indolenza, feci oscillare la minigonna e, dando le spalle ai miei ammiratori, mi piegai in avanti, lasciando intravedere il rigonfiamento dei coglioni dentro al perizoma.
“Brava piccola”. Mi incitava Rick. “Stai facendo faville”.
Ero eccitatissimo.
Avevo i loro sguardi sopra di me e quasi riuscivo a percepire lo schiocco delle lingue che leccavano labbra e spingevano la saliva in fondo alla gola.
Mi sollevai la camicetta e mostrai l’ombelico, muovendo il ventre come una silfide.
“Dai … così che tra un po' mi serve il lavavetri … avanti esci, esci! Sei piena di richieste”.
Salutai come avevo visto fare a Janet e abbandonai l’abitacolo mentre un’altra ragazza prendeva il mio posto.
“Allora. La stanza è la centocinque”. Mi disse Rick. “Ti accompagno. I tuoi ammiratori sono già lì. C’è un grande divano rotondo … tu entri, ti metti comoda e li lasci fare”.
“Ma quanti sono”. Domandai euforico.
“Almeno una ventina … hai sbancato”.

La stanza centocinque era buia e fredda.
Mi accomodai sul divano, come mi aveva suggerito il mio mentore.
Quando gli occhi si abituarono all’oscurità vidi che, intorno a me, c’era una fila di uomini contro la parete.
Erano già nudi e i grossi membri penzolavano tra le cosce.
Si avvicinarono contemporaneamente e cominciarono a toccarmi, a baciarmi ovunque, ad infilarmi le dita tra le natiche, dentro al buco del culo.
“Sei bellissima fiorellino”. Mi dicevano.
E, prima che potessi accorgermene, mi trovai a gambe aperte con uno stallone tra le cosce, un grosso uccello nella bocca e altri due pesci tra le mani.
Restai in quella posizione per moltissimo tempo, mentre loro si davano il turno.
“Che fica che hai … che fica”. Mi ripetevano mentre si sfogavano tra le mie ginocchia.
Presi il loro sperma ovunque, lo bevvi e ricevetti fiotti caldi sul volto, sul ventre e tra le dita.
Non mi ero mai sentita così desiderata.
L’ultimo del gruppo era un ragazzone alto e gentile. Mi scopò con dolcezza e, quando fu sul punto di eiaculare, sussurrò teneramente al mio orecchio: “Siamo rimasti solo io e te, vuoi venire?”.
Stavo godendo come non mai.
Sentivo tutto il peso del suo corpo.
“Si” Mugolai con la voce affaticata.
Lui mi tirò il cazzo fuori dal perizoma, lo posò sul ventre e si appoggiò su di me, facendo aderire il suo busto al mio.
In quella posizione si dimenò velocemente, sbattendomi con decisione, e mi sollecitò l’uccello.
Urlai con così tanta foga che non resistemmo molto.
Sborrammo insieme, baciandoci appassionatamente, e quello, per me, fu l’orgasmo più bello della serata.
“Sei uno splendore cucciola”. Mi disse mentre ancora scaricava nel mio culo. E se ne andò, lasciandomi soddisfatta sul divano.

“Mi hanno detto che sei stato bravissimo”. Si complimentò Timoteo mentre guidava verso casa.
Era quasi mattina.
“Ti è piaciuto?”.
“Molto”.
“Puoi ripeterlo quando vuoi” Mi disse. “Se ti va ci sono io a proteggerti … come faccio con la mamma”.
“Vuoi dire che quegli uomini …”
“Voglio dire che sei il migliore piccolo”. Mi interruppe lui. “Hai un dono lo sai … anche l’altra sera, quando stavo facendo l’amore con Manila … mi è piaciuto quello che hai fatto”. Confessò mentre mi infilava la mano tra le gambe alla ricerca della rosetta.
Fui colto di sorpresa e non seppi come comportarmi.
Mi sentivo turbato ma, allo stesso tempo, ero compiaciuto.
L’uomo di mia madre stava affondando le dita dentro a mio sfintere. Forse lei ed io avremmo potuto condividere molto di più dei vestiti.
“Ti hanno allargato per bene … guarda qua”. Mi disse, mentre, arrivati al drive-in, parcheggiava la macchina dietro la roulotte.
“E sei ancora tutto bagnato”. Proseguì. “Ti piace il cazzo Leo … o Lea? Vuoi che ti chiami anche io così?”.
Stavo impazzendo.
Avrei tanto voluto che Manila fosse lì con noi.
Gli scostai la mano, mi piegai sulla sua patta e abbassai la zip.
Volevo assaggiare l’uccello che era stato nella fica della mamma, avevo bisogno di prenderlo dentro di me e di farlo scoppiare a mia volta.
La nerchia del porco era già dura come il marmo.
“Tua madre oggi non c’è ancora passata … si vede hehe … vuoi farlo tu?”
Appoggiò la nuca sul sedile, aprì le gambe e, con lo sguardo, mi invitò a leccarglielo.
Non mi feci pregare: mi fiondai sulla mazza e cominciai ad aspirargliela come un’idrovora mentre lui allungava la mano e, raggiunto il sedere, mi piantava nuovamente le dita nel culo.
“Brava puttana, pompamelo … avanti …”. Mugolava godendosi la succhiata. “Lo dicevano che eri brava … Pensa alla proposta che ti ho fatto … MMMMH … che troia … dai, dai … prendi in gola anche i coglioni”.
Avevo gli occhi chiusi e, sotto al volante, tra le cosce di Timoteo, con la sua mano piantata sulla nuca, mi sentivo al sicuro, come dentro al grembo di mia madre.
Poi d’un tratto un boato esplose nell’abitacolo.
Il vetro del finestrino si disintegrò in mille pezzi e le schegge mi piovvero addosso, graffiandomi la pelle.
Mi girai sconvolto mentre Timoteo si sistemava il cazzo dentro ai pantaloni.
Manila aveva il viso stravolto e mi guardava brandendo un grosso bastone di ferro.
“Che cazzo stai facendo”. Urlò. “Mi fai schifo … sei un mostro … un mostro”.
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