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Lui & Lei

IL CONDOMINIO - CAPITOLO PRIMO


di Giangi57
05.02.2020    |    4.681    |    4 9.6
"«No, così non si deve, Dionigi..."
IL CONDOMINIO - CAPITOLO PRIMO

Dionigi Caputo, trentatré anni, una laurea in lettere e disoccupato cronico era venuto via da Napoli per due ragioni, ciascuna delle quali sarebbe stata sufficiente di per se stessa a consigliargli un cambiamento d'aria.
La prima ragione era che a Napoli era impossibile trovare un lavoro decente soprattutto per uno che, come lui, aveva poca voglia di lavorare. La seconda ragione consisteva in Filumena, una trentacinquennne che pretendeva di farsi sposare perché Dionigi l'aveva gravemente compromessa.
Siccome Filumena Corallo era bruttina, povera e racchia, Dionigi Caputo le aveva fatto uno sberleffo ma, poiché Filumena, oltre ad essere brutta e racchia, era anche nipote di don Ciccio, camorrista temutissimo del rione Sanità, Dionigi aveva fatto in fretta e furia le valigie ed era partito per Milano. Adesso sedeva nella cucina modernissima dello zio Giovanni che gli aveva procurato un lavoro nella grande città settentrionale. Sedeva anche di fronte a un gran piatto di maccheroni alla ricotta e ascoltava lo zio Giovanni, esempio di saggezza e laboriosità.
Sedute al tavolo c'erano anche la zia Peppa e la cugina Margherita, trent'anni, culo basso e un poco strabica. Tutti mangiavano maccheroni alla ricotta tranne lo zio Giovanni, che parlava.
«Devi capire che un lavoro da portinaio è una cosa delicata, anzi delicatissima. Questo palazzo, poi, e tutto abitato da gente chi più chi meno perbene ma tutti con i soldi, con le arie di chi ci ha i soldi e pretese conseguenti. Ma io ci ho fatto quarant'anni e mi ci sono trovato bene. Orecchie aperte, bocca chiusa, sorriso sulle labbra. Una paga buona, l'alloggio che se ci ho vissuto io con la famiglia andrà bene anche per te, libero il giovedì pomeriggio e tutte le sere dopo le ventuno.»
«Ho già parlato con la signora Brusati che è padrona di tutto il palazzo, gli altri sono in affitto, e lei sarebbe d'accordo. Oggi stesso ci andiamo e ti presento la signora Brusati, sembra severissima ma è onesta, una pasta di donna se la prendi per il verso giusto: rispetto e darsi da fare, questo vuole.» lo zio proseguì..
«È vedova da cinque anni, inconsolabile perché col marito si volevano un gran bene. Tiene 'na figlia di quindici anni che è bella e buona e assai educata. Sta nell'appartamento del piano nobile che poi sarebbero due appartamenti, dieci vani ciascuno, l'altro è affittato al commendator Malvolti che commercia in spugne. Sua moglie Flora tiene arie da gran dama, una bella donna con i capelli rossi e un brutto carattere».
La cugina Margherita considerava intanto questo cugino Dionigi che non aveva mai visto e le sembrava un bel ragazzone, ben piantato, piacevole aspetto e poi aveva una laurea, che non guasta mai. Margherita non riusciva a trovar marito e, mentre masticava pensosa i maccheroni alla ricotta, andava chiedendosi se avrebbe potuto tentare col cugino Dionigi...
«Ti faccio 'na panoramica degli inquilini» bofonchiò lo zio Giovanni.
«C'è il primo piano con due appartamenti. Nel primo ci stanno due sposini, i Capretti. Lui figlio di papà, un perdigiorno senza lavoro. Il padre gli passa un assegno e campano con quello ma il giovanotto è una testa matta. Lei invece è 'na brava guagliona, bionda, ci avrà si e no diciotto anni, sono sposati da sei mesi.
Nell'altro appartamento del primo una coppia di giapponesi, lui è funzionario a Milano della Honda, puliti, silenziosi, molto educati.
Più sopra ci sta un mezzanino con due appartamenti.
Nel primo i Pigato, lui direttore di Banca, vedovo, risposato con una donna di vent'anni più giovane di lui. Pigato tiene un figlio diciottenne, non è una cima, ha ripetuto già tre anni di scuola, non tiene voglia affatto.
Nell'altro appartamento ci stanno i Mandorla, lui agente di cambio, tiene 'na prosopopea che non ti dico ma lire poche.
Al piano nobile te l'ho già detto, la Brusati ei Malvolti.
Poi ci sta il mezzanino sottotetto. Ce l'ha tutto in affitto un certo Gregori che fa lo stilista ed è recchione, tanto per capirci...».
«A Milano dicono culattone», intervenne Margherita, strizzando l'occhio a Dionigi. «Ma è affermato, sai? È sempre sulle riviste di moda, di arredamento».
«E guadagna bene, mi dava certe mance...», sospirò lo zio Giovanni. «Se gli fai qualche cortesia quello ricambia sempre».
«Però Dionigi è giovane, meglio che ci sta alla larga, da quello», consigliò la zia Peppa. La cugina Margherita strizzò ancora l'occhio buono a Dionigi e contemporaneamente gli fece piedino sotto la tavola. Immediatamente lui si mise in allarme. Era appena sfuggito ai lacci di Filumena, non intendeva incappare in quelli della cugina strabica, fece finta di nulla. La conversazione continuò insieme al secondo piatto.
Dopo il caffè e l'ammazzacaffè lo zio decise che sarebbero andati subito a presentarsi alla vedova Brusati, in via Lazzaretto. Si stiparono in una vecchia 500 con la cugina alla guida, a fianco lo zio Giovanni, rannicchiato dietro Dionigi.
Un palazzo d'epoca, trasudava decoro, il portone era imponente, le scale ben tenute, l'ascensore vecchiotto ma di stile e anche la vedova Brusati aveva stile. Vestita con eleganza severa li ricevette nello studio del marito, dai mobili funebri e massicci, fece domande in tono garbato; Dionigi si sentiva inquisito ma con stile. La Brusati era ancora una bella donna, aveva una bella figura piena ma non troppo, un volto severo incorniciato dai lisci capelli neri tagliati corti, occhi scuri, una carnagione delicata e una bocca carnosa e ben disegnata. Una mezz'ora di colloquio e Dionigi si ritrovò ufficialmente portiere di giorno dello stabile di via Lazzaretto.
L'alloggio era a piano terra, comodo anche se non troppo luminoso. Lo zio Giovanni spiegò a Dionigi quali sarebbero state le sue incombenze, gli mostrò nel seminterrato il locale caldaie e quello della lavanderia, spiegandogli che ogni inquilino teneva in quel locale una lavatrice per non occupare spazio prezioso negli appartamenti.
« Nei giorni di pioggia ci stendono pure la biancheria», aggiunse Margherita «e tu devi attaccare le stufe elettriche a ventola. A proposito di biancheria ti occorreranno delle lenzuola, delle federe».
Fu stabilito che Dionigi si fermasse da subito nella portineria, tanto per prendere confidenza e spolverare l'alloggio, Margherita sarebbe tornata più tardi a portargli l'occorrente per il letto e un paio di asciugamani. Rimasto solo Dionigi disfece la valigia poi si stese sul materasso per un riposino cinque minuti dopo russava.
Lo destò il rumore della pioggia, un'ora dopo. Una pioggia torrenziale che si era abbattuta su Milano. Poi squillò il campanello del portone e lui ebbe un sobbalzo perché lo aveva nell'ingresso di casa sua oltreché nel gabbiotto della portineria. Il palazzo aveva un cortile e un porticato interni di modo che non si bagnò andando ad aprire. Chi s'era bagnata invece era la cugina Margherita, fradicia come un pulcino scappato dalla chioccia durante il temporale.
« Madonna! Ho lasciato la 500 in sosta vietata ma chi se ne frega! » sbuffò entrando. Reggeva un sacco di plastica che Dionigi le tolse di mano. Nel suo alloggio lei tirò fuori dal sacco gli asciugamani e corse in bagno, lasciando piccole pozze d'acqua dappertutto. Poco dopo lo chiamò: «Dionigi! vieni un momento! ». Aveva aperto di poco la porta del bagno, lui la intravvide coperta da un asciugamano. «Guarda nell'armadio, in stanza da letto, portami due attaccapanni che devo appenderci il vestito».
Intanto sbirciava le spalle grassocce della cugina, un'occhiata alle gambe, corte ma polpose, forse anche un poco storte ma via... la carnagione era candida come il latte, doveva aver la pelle di grana fine, la Margherita...
«Dionigi... Ce l'hai mica un pullover?».
«Sì, vado subito».
«Huei, fa' presto che qui si gela, con il sindaco che non vuol dar la proroga per il riscaldamento!».
Dionigi trovò gli appendiabiti, scelse un pullover e tornò di corsa. Lo spiraglio si era allargato maggiormente. Ebbe una visione rapida di due mammelle grosse dentro il reggipetto, bagnato da diventar trasparente che si vedevano i capezzoli. «Grazie, Dionigi. Avresti mica anche un paio di calzini? Meno male che sei mio cugino altrimenti sarebbe una bella situazione, voglio dire imbarazzante, no?».
«Eh... figurati, tra cugini... Vado a prenderti un paio di calze» disse Dionigi ma, nel frattempo, gli era venuto duro. Strabica o no lei aveva la fica, due tette ed un culo che, per quanto basso, sembrava invitante. E poi mica se la doveva portare a passeggio, la Margherita... Tornò con le calze, lei disse:
«Grazie, tra un minuto sono pronta. Intanto guarda un po' in dispensa, dovrebbe esserci una stufetta elettrica, altrimenti i vestiti me li devo rimettere bagnati.
La stufetta c'era, Dionigi trovò una presa in camera da letto, accese la stufa. Entrò la Margherita.
S'era pettinata, indossava il pullover che le giungeva a mezza coscia ed i calzini ma niente scarpe. In mano reggeva un appendiabiti con la gonna e la camicetta.
« Metti la stufetta più sotto quell'attaccapanni, Dionigi. Grazie. Così mi asciuga la roba. Madonna che acqua! Ma senti come continua, mica vuole smettere!». Usci dalla stanza pattinando sulle calze di Dionigi e rientrò subito con l'atro «ometto» e lui vide che c'erano su reggipetto, collant e... mutandine. Li guardò incredulo e non s'accorse che Margherita guardava al centro sformato dei suoi pantaloni...
« Margherita, tu mi prendi freddo».
«Caldo non c'è di sicuro qua dentro, mi siedo un poco vicino alla stufetta... ho la schiena di ghiaccio, madonna! quant'acqua!».
«Mi dispiace, è colpa mia... vuoi che te la massaggio un poco, la schiena?».
«Eh, dovresti massaggiarmi tutta, se non è che per quello, ma una sfregatina mi andrebbe bene, fammi pure forte...», acconsentì subito lei voltandogli le spalle. Dionigi cominciò da quelle, lei sporgeva il culo indietro emettendo mugolii di soddisfazione...
«Ci hai le mani forti, te».
«Aspetta, anche i fianchi».
«Oh, sento che mi torna un po' di calore, sai? In confronto ai piedi che sembrano due ghiaccioli...».
Dionigi stava massaggiando i fianchi grassocci, arrivava con le mani fin sotto le mammelle che gonfiavano il pullover e neppure cadevano troppo, quelle due grosse tette...
«Ti massaggio anche i piedi, se vuoi».
«però aspetta, mi siedo sul letto e tu prendi la sedia così non ti curvi troppo».
In un attimo era seduta sul letto, Dionigi prese la sedia e già lei sporgeva le gambe polpose e bianche, gli appoggiava i piedi in grembo e, in un gesto di pudore, tirava di più il pullover che, ancora un centimetro più su, le avrebbe scoperto l'inguine.
«Meno male che siamo cugini, Dionigi... così non mi vergogno, sei mio cugino, no?».
«Eh! Certo, Margherì, siamo cugini, no?», e le soffregava con forza i piedi, le gambe s'erano un poco aperte e il pullover era risalito. Lei si voltò a guardare la finestra buia e disse:
«Ma senti come piove... È una bufera...». Che belle cosce grassocce e... gli era parso di vedere l'ombra scura del pelo, oltre il pullover... Gli faceva male il cazzo da tanto era duro! Le massaggiò le gambe, poi le ginocchia.
«Ce l'hai di ghiaccio, le ginocchia! E stato a causa mia che hai preso freddo... anche le cosce le hai gelide».
Lei lasciava che le mani arrivassero sino all'orlo del pullover, oltre Dionigi non osava spingersi, erano in una situazione di impasse. Le mani di lui andavano su e giù, tastavano, impastavano come quelle di un massaggiatore, insensibilmente Margherita allargava sempre più le gambe, Dionigi osò spingersi appena sotto l'orlo del pullover con la punta delle dita e lei mormorò: «Meno male che siamo cugini, vero? così non c'è niente di male, altrimenti... Insomma, poi siamo a Milano, vero? oh, che bel calduccio, adesso...», e continuava ad allargare le gambe.
«Vuoi che mi stenda sul letto? Così lo fai meglio... non ti dà fastidio, vero? Aspetta... mi metto così...»
ed eccola bocconi sul letto, il pullover che appena arrivava a coprirle le natiche, la faccia contro il materasso in modo da poter fingere di non vedere, in modo da non metterlo in imbarazzo se... «No... no... quale fastidio! mi piace massaggiarti»,
e le premeva i palmi contro le cosce, le massaggiava e le palpava senza che lei dicesse niente, anzi la sentiva sospirare come in preda al benessere. A questo punto si chiese se fosse una usanza milanese quella che un cugino può massaggiare a quel modo una cugina perché, a Napoli, a quell'ora avrebbe rimediato un paio di sganassoni oppure la fica...
«Per te va bene, così?», e le spingeva le dita sotto l'orlo del pullover a tastare le natiche burrose.
«Mmmh! sì, continua, Dionigi, continua se... se non sei stanco».
«Ma figuriamoci, io ti massaggio tutta ma proprio tutta, sai?».
Al diavolo la prudenza, le infilò le mani sotto e le palpò le natiche, la schiena, i fianchi e, quando le dita furono all'altezza dei seni, ebbe l'impressione che lei gli facesse posto... Allora glieli impastò e mormorava roco: «Sei fredda dappertutto, sai? dappertutto... e, aspetta un poco...». Continuò con una mano sola mentre con l'altra si abbassava la lampo, le mutande ed i calzoni insieme. Eh, cazzo! Milano o Napoli quando tocchi culo e tette a una cugina vuol dire che la cugina in questione ce n'ha voglia quanto te! Salì sul letto e le si stese addosso infilando la cappella tra quelle natiche bianche e burrose e lei ebbe un sospiro: «Mmmmh! Ma cosa fai, Dionigi...cosa vuoi farmi, adesso...».
«Niente, Margherì, soltanto cos... soltanto un poco... lasciami fare...» e le faceva sentire il cazzo duro proprio fra le due aperture, infilava le mani da sotto ad afferrarle le mammelle che erano grevi e toste.
«Soltanto un poco... vuoi? soltanto un poco».
«No, così non si deve, Dionigi... siamo cugini... tra cugini non sta bene», ma muoveva il culo, apriva le cosce, si puntellava sulle ginocchia per rialzare il culo di quel tanto necessario a Dionigi per infilarglielo dentro, se avesse voluto...
«Soltanto cosi, appena appena...», insisteva lui, arrapato come un mandrillo,
«soltanto un poco...», e si muoveva, abbassava il tiro, la cappella adesso era immersa nel cespuglietto nero di lei, provò a spingere ed entrò quasi tutto, come nel burro, senza rendersi conto che lei era zuppa e più che pronta. A trentatré anni Dionigi Caputo non aveva gran pratica di femmine. Qualche ragazzotta, pochissime puttane (quelle bisogna pagarle) e infine quella racchia di Filumena Corallo, soltanto perché era a digiuno da mesi e quella gli s'era offerta, confidando nell'ingenuità di lui e nel potente appoggio dello zio per trovarsi un marito, nullatenente e nulla facente ma laureato. Ora Margherita, per quanto strabica, per quanto di gamba storta e culo basso, era tuttavia uno zucchero a paragone di Filumena e Dionigi non ne poteva più dalla voglia.
«Oh! ma cosa mi fai! siamo cugini, non si deve! Mmmmh! aaaah!!» si lamentò Margherita mentre lui cominciava a spingere tenendola abbrancata per le poppe.
«Aaah! Margheri, soltanto un poco! così!!» gemeva Dionigi mentre fotteva. «Aaah! Dionigi, mi fai far peccato! con mio cugino! no! Sì! oh, sì! Ooooh!!! Dionigi!!».
«Lasciami fare, Margheri! lasciami fare!!». Altro che lasciarlo fare! Lei moveva voluttuosamente il culo, congratulandosi con se stessa perché Dionigi, oltre ad essere un pezzo di giovanotto, era anche ben fornito, era il cazzo più grosso che lei avesse mai avuto...
«Oh, Dionì, io ti lascio... sì, ti lascio perché... ti voglio bene, ti voglio bene, Dioni!! Aaaah!!! continua, fammi ancora! ancora!!».
E come no! Dionigi non l'avrebbe mollata neppure se fossero arrivati i Carabinieri, al punto in cui era! Continuò a fottere, sempre più forte e profondo, le natiche di Margherita risuonavano piacevolmente colpo su colpo e, ad ogni spinta, lei s'avvicinava al piacere, sentiva già che sarebbe stato un orgasmo meraviglioso, indescrivibile, imparagonabile alle scopate fuggevoli fatte contro un muro, ai pompini fatti al cinema, a quelli fatti al proprietario del negozio di pasta fresca dove lavorava.
«Ci sono, Dionigi!!!», gridò ad un tratto. Non glie ne importava più di fingere, di mostrarsi pudica, ritrosa, che lui credesse che gli s'era concessa per affetto fra cugini...
«Fammí cosi! Fammi cosi che me fai godere!!!» gridò ad un tratto. Aaaah vengooo!!!», e lui si senti bagnare il cazzo e ne fa così eccitato che fece appena in tempo a tirarsi fuori per striarle le natiche di sperma e non soltanto le natiche che ma anche il suo pullover fu innaffiato generosamente.
«Aaah! che piacere mi hai dato, Margheri, rantolò, sistemando il cazzo fra le grosse natiche di lei e continuando a spingere in quel modo mentre lei sospirava e gemeva ancora. Poi le gravo addosso, i corpi incollati da una quantità di fluido vischioso soddisfatti entrambi come da tempo non lo erano stati.
«Oh, Dionigi, non dovevamo farlo, sai?», sospirando dopo un poco Margherita. «Un peccato, tra cugini che non so come potrò dirlo in confessione, domenica.».
Non sapendo che rispondere lui le accarezzò i fianchi e lei sospirò ancora, felice di sentirsi pesare addosso quel peso di maschio. «Senti come piove ancora forte? Ce ne stiamo un poco cosi? Magari sotto una coperta sennò ci piglia freddo e tu vieni da Napoli, non sei abituato a questo clima di Milano che fa freddo anche di maggio».
Dionigi prese una coperta, ancora piegata su una seggiola e la distese su Margherita. Togliti i pantaloni, Dionigi, li ridurrai come una fisarmonica. Lo non ti guardo....
Era un buon consiglio e lui, già che c'era, si tolse anche le mutande prima di rannicchiarsi accanto a lei sotto la coperta.
«Eh, si, piove ancora tanto», disse, tanto per la conversazione.
«Ce ne stiamo ancora un poco qui sotto al calido sospirò Margherita, «ma da bravi cugini, senza far niente, vero? Finché non mi asciugano i vestiti sopra la stufetta elettrica», Si accoccolo tutta contro di lui e chiuse gli occhi. Meglio cosi, penso Dionigi perché, strabica com'era, non si sapeva mai dove guardasse. Poi la abbracciò e lei fece udire un sospiro di soddisfazione, insinuò una coscia tra quelle di lui a sentire il cazzo. Era tenero tenero ma... tra poco avrebbe potuto risorgere, ne era certa. Ma c'era un problema: doveva prendere l'iniziativa lei o lasciare a lui la prima mossa? Da fuori veniva lo scrosciare della pioggia che batteva con forza sui tetti e sulle strade ed era un rumore confortante così come era confortante il calore del corpo di Dionigi.
Spinse la coscia un po' più addentro fra quelle di lui, come casualmente e la mano del cugino scivolò giù, dalla schiena al culo scoperto, accarezzò le natiche, le dita incontrarono il pelo e si fermarono, tastando. Quella era da considerarsi una prima mossa e la mano di lei scese a sFlorare il pene ancora molle ma... era sempre un bel cazzo, anche in stato di riposo. Margherita glielo avrebbe preso volentieri in bocca ma in questo caso che cosa avrebbe pensato di lei, Dionigi, che era una puttana? che era una ragazza facile abituata a fare quelle porcherie? Margherita era nata a Milano ed aveva una mentalità milanese, Dionigi era nato, vissuto e cresciuto a Napoli. Lei decise di soprassedere, almeno per il momento. Tuttavia lasciò la mano sul cazzo, senza stringere anche se ne aveva una gran voglia. Dionigi le tolse la mano dal culo e la portò a premere la sua.
«Prendilo un poco in mano, Margherì, soltanto un poco».
«Ma... non dobbiamo, Dionì... se lo facciamo ancora, allora è proprio peccato... non sta bene... tra cugini... io non so...».
«Si, così, stringilo», suggerì lui, «toccalo un poco... dai, Margherì, mi piace tanto se lo tieni in mano... così, sotto la coperta...».
«Mi fai fare le porcherie...», si lamentò lei ma intanto articolava il polso a menarglielo per bene, passava il pollice sulla cappella che già andava gonfiandosi, tutto il cazzo si gonfiava ed induriva e, quando lui fu certo che Margherita avrebbe continuato spontaneamente, le infilò una mano tra le cosce e lei le aprì prontamente ad accogliere le dita del cugino che cominciarono a frugarla.
«Mmmmh! non si deve, si fa peccato davvero... allora significa che vogliamo proprio farlo... tra cugini, cugini primi, Dioni! oh, questo affarone cattivo... si è rifatto cattivo, sai?».
«Perché gli piace la tua mano... senti come piove, fuori... si sta bene, così! continua, Margherì! continua che mi piace!!».
«Dammi un bacio... un bacino, Dionì...».
«Si! sì, aspetta!» La fece mettere supina, le be larghe, le fece riportare la mano sul cazzo che s'era drizzato, duro come e più di prima e si chinò a baciarla, con la lingua in bocca, e lei gli rispose con la lingua, mugolò di piacere quando la mano di lui tornò a frugarla. Adesso glielo menava da esperta, mai nessuna era stata capace di menarglielo in quel modo, ci sapeva fare ed era appassionata, le piaceva impugnare quel grosso tronco di carne dura, quel bastone della felicità. Sentiva che sarebbe stata capace di godere così, con le grosse dita di lui che la frugavano, anche se Dionigi non era esperto un granché in quel genere di carezza, abituato a cacciarlo dentro subito non appena gli si presentava l'occasione.
Anche adesso non seppe resistere e, borbottando:
«Aspetta un poco, Margherì, aspetta un poco...» si sistemò tra le cosce di lei e guidò il cazzo tra il folto pelo nero, si fece strada con la cappella, fu dentro e già cominciava a muoversi quando Margherita si lamentò: «Ma così non si deve, Dionì! Oh, no! Cosa mi fai? Oooh! Dionì, cosa mi fai con quel tuo affare così grosso?».
«Appena appena, Margherì... per piacere... solamente cos... un poco ancora...».
«Ma l'hai messo tutto dentro! Oh, com'è lungo! oooh!!».
«Si! così!! così!! Aaah, Margherì, mi piace troppo!!».
«Anche a me ma non dobbiamo... è peccato...», e intanto la coperta era scivolata via, Dionigi afferrò le gambe della cugina per le chiappe e la mantenne in posizione mentre fotteva con forza. Adesso anche l'altro occhio di Margherita era andato in fico ma lui mica le guardava gli occhi. Chiavava, lui, e ne aveva un piacere grande. Si sentiva i palmi appesantiti lussuriosamente da quelle due natiche grassocce e bianche, di pelle fine, appena umide ché già lei cominciava a godere «Aaaah! mi piace, Margherì! mi piace tanto!!».
«Dion... io godo... mi fai godere!!! mi fai godere!» gridò Margherita, stralunando tutta. «Godi anche tu!!! Aaaaah!!!».
Quel 'godi anche tu' fece uno strano effetto su Dionigi. Ricordo che, di solito, le servotte che era riuscito a impallinare, avevano una gran paura e, prima di abbandonarsi all'orgasmo, gli raccomandavano di stare attento, di non godere dentro. Niente di tutto questo aveva detto Margherita. Forse, essendo milanese di Milano, prendeva quelle cose, quelle pillole? Oppure... oppure non si curava che lui godesse dentro? E, se non se ne curava, perché non se ne curava? Pensieri agghiaccianti di cugine incinte, di matrimonio, attraversarono la mente ei sensi di Dionigi, non tanto da rammollirglielo ma abbastanza per allontanare le fiammelle che avrebbero incendiato irreversibilmente le sue reni, già pronte all'orgasmo. Continuò a fottere ma meccanicamente, lucido e all'erta. No, lui non voleva correre rischi, era abituato a venir fuori, soltanto una volta aveva fallito e proprio quella volta, con Filumena Corallo, gli era costata la fuga, l'esilio in terra milanese dove le cugine si facevano liberamente fottere e dove pioveva sempre, anche di maggio. Eh, no!
«Oooh, Dioni, mi hai fatto morire dal piacere! Non m'importa se è peccato... non m'importa, te lo giuro! mi pareva d'essere in cielo! godi anche tu, Dioni, voglio che godi tanto come me!».
«Si, si, anch'io», borbottò lui ma si tirò fuori e, sollevato il pullover che le ricopriva le mammelle, le si mise a cavallo, compresse il cazzo fra le due pe grosse dure e cominciò a sfregarlo in quel modo.
Aah! Dionigi, che purcun!», si lasció sfuggire lei.
«Te sei proprio fatto per le porcherie! cosa mi fai Magari vuoi mettermelo anche in bocca, porcaccione!», Subito dopo si rimproverò per quel velato suggerimento, che avrebbe pensato di lei Dionigi? Lui pensò di metterglielo effettivamente in bocca e le spinse la cappella contro le labbra che Margherita avrebbe voluto tener chiuse ma, siccome parlava, non era così facile. «Ma no... glub. che cosa. ggl vuoi... augll-lub.. far. mmmmmh!». Eh, ormai, tra una parola e l'altra glielo aveva spinto in bocca, cosi non restò a Margherita che afferrarlo con la mano perché, spingendo a fondo, lui non la soffocasse.
Una precauzione che si trasformo in una sega estremamente lussuriosa e lei agi sulla cappella con la lingua e menò l'asta carnosa e dura finché, con una serie di spasimi e di grida soffocate, Dionigi non le venne in bocca e gliene fece tanta che sembrava non dovesse finire mai, non faceva a tempo ad inghiottire che ne arrivava dell'altra, la sborra le colava dagli angoli della bocca.
Mezz'ora dopo, mentre lui fumava una sigaretta sdraiato sul letto, lei gli aveva stirato i pantaloni aveva rassettato l'alloggio e s'era rivestita. Ha smesso di piovere, osservò poi Dionigi, infilando i pantaloni stirati di fresco. «Meglio che vai Margheri, son quasi le otto, non voglio che fai tardi a causa mia.

Trascorsa una settimana Dionigi aveva preso confidenza con il suo lavoro e lo trovava non soltanto accettabile ma, per certi versi, persino interessante. Doveva soltanto stare attento a che inquilini sbadati, ad esempio il giovane Pigato, figlio del direttore di banca, non gettassero cicche dentro l'ascensore o nell'atrio. Era suo compito governare le lavatrici e l'impianto elettrico e, soprattutto, badare a che non entrassero estranei.
Siccome i tempi erano duri anche per i benestanti soltanto due famiglie potevano permettersi il lusso di una donna a ore. La vedova Brusati, che era ricca più che benestante, e il commendator Malvolti, che faceva i soldi con le spugne (quelle autentiche che costano un occhio della testa) e abitava al piano nobile

Le altre signore scendevano all'interrato per lavar la roba e salivano alla terrazza comune per stendere. Dionigi aveva cosi conosciuto Bruna Pigato, ventinove anni contro i cinquantadue del marito direttore di banca, e un corpo da indossatrice di costumi da bagno.
Joko Masaki, moglie di un dirigente della Honda, ventitré anni e un faccino da bambola di porcellana. Rosy Mandorla, la moglie dell'agente di cambio, bionda e dall'aspetto dolce
Poi c'era la giovanissima Aura Capretti, diciotto anni, sposata da sei mesi con uno scervellato, bionda anche lei, giovane e soda che a Dionigi s'induriva il cazzo soltanto a pensarla, figuriamoci poi quando scendeva dabbasso e manco sapeva manovrarla la lavatrice, doveva farle tutto lui. Alle volte scendeva anche Flora Malvolti, una rossa lentigginosa con grandi occhi verdi e gambe chilometriche che avrebbe fatto arrapare anche un cadavere tanto trasudava sesso da ogni dove.
La vedova Brusati invece non scendeva mai, mandava la donna a ore, una veneta segaligna e sessantenne che non rivolgeva la parola a nessuno. Dionigi incontrava la signora Brusati quando lei usciva per compere al mattino oppure per andare al te di qualche amica nel pomeriggio. Lei era cordiale e distante al tempo stesso e Dionigi la considerava una signora autentica e anche una bella donna. Infine c'era la Brusati figlia, un terremoto di sedici anni, bellissima e piena di vita. Dionigi non aveva mai visto una ragazza così bella e così ben fatta. Un frutto neppure troppo acerbo a giudicare dalle curve, alta, sempre allegra, con capelli color dell'ebano lucidato e incredibili occhi azzurri. Frequentava il liceo e riceveva spesso amici e amiche che venivano a studiare da lei, girava in motorino e stuzzicava sempre Dionigi a proposito delle scarpe di lui.
Da napoletano autentico Dionigi aveva la mania delle scarpe lucidate da specchiarvisi e quella se n'era accorta e lo sfotteva: «Ti ci specchi quando ti fai la barba, Dionigi?». Arrivava col motorino, sempre affamata, i capelli tagliati corti, arruffati, carica di libri che le cadevano da tutte le parti e Dionigi le metteva a posto il motorino, le raccoglieva i libri, glieli portava all'ascensore e lei, per tutto ringraziamento, lo sbeffeggiava: «Guarda che ti sporchi le scarpe, stai attento», ma Dionigi sapeva di esserle simpatico e lei gli era più che simpatica, se la sognava la notte. Si chiamava Karina e si davano del tu, dopo pochi giorni erano già in confidenza; quando Karina beccava un quattro diceva a Dionigi: «Quella puttana della prof di matematica me l'ha buttato nel culo fino all'osso, bagascia che non è altro!».
«Si vede che è brutta e odia le belle bambine come te», rispondeva Dionigi e lei, affamata e già chiusa nell'ascensore, sogghignava: «Pussa via, lupo mannaro!».
In quanto a orario Dionigi non si poteva lamentare. Aveva imparato a cucinarsi qualcosa e, alle una e trenta, buttava giù gli spaghetti e li condiva con parmigiano e pommarola. Lo stesso alle ventuno. Il giovedì, che era di festa, andava a colazione dallo zio Giovanni ma, per il resto della giornata, restava in portineria o nel suo alloggio perché non sapeva dove andare. Con Margherita erano d'accordo che si sarebbero rivisti ma di nascosto non tanto dallo zio Giovanni quanto dalla vedova Brusati che era di una moralità rigorosa. Dionigi aveva già ricaricato le batterie anche se, adesso che conosceva le casigliane di via Lazzaretto, s'era fatto di bocca più difficile. Si chiedeva come sarebbe stato con Joko Masaki, forse le giapponesi avevano tutto un modo particolare di darla... Pensava a Flora Malvolti con desiderio ed inquietudine: quella rossa doveva essere un vulcano che eruttava sesso e lui temeva che non sarebbe stato all'altezza se lei... E Bruna Pigato? Che schianto di ragazza, quella mora! Che fisico! Pur senza averla mai sfiorata la indovinava di carni dure come il marmo, era una statua vivente; Dionigi si arrovellava ad immaginare il rapporto fra lei ed il marito che era grasso, senza un capello in testa, con occhiali spessi così che se li avesse persi si sarebbe smarrito nel cortile. Com'era, col marito? Ci godeva? Lo faceva godere? Il risultato di quelle immaginazioni era che gli veniva il cazzo duro e insieme il mal di testa...E Rosy Mandorla, la dolce bionda un po' svanita, sempre gentile, come sarebbe stata a letto? Il marito di lei, l'agente di cambio, arrivava a casa tardi, soltanto la sera, sempre con l'aria cupa a bordo della Saab 9000 di cui non riusciva mai a pagar le rate puntualmente come gli aveva detto lo zio Giovanni. La Rosy doveva avere un corpo bianchissimo, morbido e sicuramente un gran bel paio di tette, lui le aveva osservate sotto l'abitino da casa che lei portava quando scendeva alla lavanderia.
Poi c'era Aura Capretti. Vederla e sentirselo rizzare per Dionigi era tutt'uno. Lei e il marito mangiavano sempre fuori, mezzogiorno e sera, tornavano tardi e non era raro che il Capretti, saturo di whisky, mollasse la Porsche in mezzo al cortile perché non riusciva a parcheggiarla tra le colonne. Anche lei era su di giri quasi sempre, sorrideva melensa a Dionigi quando lo svegliavano alle due o alle tre del mattino perché il Capretti non riusciva ad infilare la chiave nella serratura del portone. Gli sorrideva magari vedendo Dionigi, barcollava e lui la sorreggeva sino all'ascensore; una sera aveva dovuto salir con loro perché il Gianni Capretti s'era steso accoccolato con lo smoking sul pavimento dell'ascensore e voleva dormir cosi. Lei, Aura, s'era seduta sul divanetto di pelle rossa e una bretella dell'abito da sera era scivolata rivelando un seno fermo e candido, dal capezzolo appuntito. Tra il terreno ed il primo piano per poco Dionigi non s'era sbrodolato le mutande.
Infine Karina Brusati. Con la vedova Dionigi non sentiva palpiti, si limitava ad ammirarne lo stile, la compostezza, l'eleganza degli abiti invariabilmente di buon gusto ma severi, con Karina si sentiva tremare. Di voglia, d'accordo, ma c'era qualcos'altro Dionigi temeva di essersi innamorato di lei e si sentiva come un vecchio barbogio eccitato a guardare ragazzine. Naturalmente si dava dello sciocco, inutile pensarci, Karina era gentile con lui perché era gentile d'animo, scherzava con lui perché era sempre di buon umore ma, in ogni modo, era meglio che se la togliesse dalla testa, sarebbe stato come pretendere di toccare il cielo con un dito...
Era quasi mezzogiorno quando suonarono al portone ed era un tizio in tuta con la valigetta e il marchio di una nota casa di lavatrici, «Mi ha mandato a chiamare la signora Malvolti, per la lavatrice», disse l'uomo. Dionigi lo fece aspettare. Citofonò alla signora, ebbe la conferma e fece scendere l'uomo nel seminterrato. Era un po' sorpreso perché non gli risultava che ci fosse una lavatrice guasta. Comunque risali in portineria; quando la signora Malvolti scese scambiarono un saluto, lui le sbirciò il sedere provocante, sottolineato dalla leggera gonna a fiori. Strano che scendesse in lavanderia per accertarsi che il tecnico riparasse a dovere la lavatrice, poi pensò che con tutta probabilità era scesa per pagarlo dopo la riparazione. Un minuto dopo arrivò con la sua Mercedes il marito e Dionigi gli aprì il portone.
Camillo Malvolti, cinquantacinque ben portati, era grasso, gioviale, mai una volta che incontrasse Dionigi senza scambiare con lui una battuta scherzosa.
Ancora cinque minuti, gracchiò il citofono, era Malvolti.
«Ehi, Dionigi, mica visto mia moglie?».
«La signora è scesa in lavanderia, commendatore».
«In lavanderia?! A mezzogiorno? Oh, va bene, Dionigi, grazie».
Ora che ci pensava Dionigi trovava nuovamente strana la cosa, e si aggiunse il pensiero che il commendator Malvolti non rientrava mai prima delle una e trenta, anche più tardi, mentre oggi era rientrato insolitamente a mezzogiorno. Dionigi ci rifletté sopra per un attimo e poi, essendo un giovane di cuore, decise di avvertire la signora che il marito era già di sopra. Non che sospettasse della signora e del tecnico (che oltretutto non era certo un Adone) ma insomma, magari lei non si attendeva che il marito rientrasse a quell'ora, chissà, forse era meglio avvertirla...
Scese in lavanderia e una prima occhiata lo lasciò stupito. Le lavatrici erano sette, una per apparta mento e quella dei Malvolti era la terza ma nessuno la stava riparando, anzi, per essere esatti non c'era nessuno che riparasse nessuna lavatrice. In fondo alla lavanderia c'era una rientranza nel muro, riempita da una cassapanca che conteneva polveri da lavare ma lui non poteva vederla perché la Rosy Mandorla aveva steso di traverso tutta una serie di camicie del marito la sera prima e non era ancora scesa a ritirarle. Non poteva vedere ma poteva sentire.
«Insomma, prima sei venuto, mi hai goduto in bocca e adesso non te la senti più? Ma che razza di maschio sei?». Era la voce, roca e sensuale, della signora Flora, nessun dubbio. Una voce irritata e, se era vero ciò che diceva, giustamente irritata. Dionigi non voleva far la figura dello spione. Fece un po' di rumore, ad alta voce chiamò: «Signora Malvolti! È qui? Da dietro le camicie venne un tramestio, un strusciar d'abiti, poi da quel sipario emerse Flora Malvolti, scarmigliata, il volto rosso come i capelli, la camicetta che usciva dalla e irritata e, prima che potesse dir qualcosa. Parlo Dionigi.
«Signora Malvolti, suo marito è arrivato poco tempo fa e adesso ha citofonato per chiedermi se l'avevo vista». Lo fissò sorpresa
«Mio marito? Oh, santo cielo! Gli hai detto che... ».
«Gli ho soltanto detto che lei era scesa in lavanderia, signora»,
«Non gli hai parlato di... del tecnico?».
«No, signora, assolutamente, non mi sembrava il caso...». Per la verità Dionigi se n'era dimenticato ma, visto che era in una situazione di vantaggio, cioè creditore di un favore, la sua anima napoletana aveva deciso di approfittarne.
«Grazie, Dionigi. Grazie... per ora. Vado su». Corse via, la larga gonna a fiori le svolazzava intorno al culo, lo disegnava ed era un gran bel culo. Da dietro le camicie emerse il tecnico delle lavatrici. Era pallido, spaurito. Senza una parola Dionigi lo accompagnò al portone, come facesse la Malvolti, di un mingherlino come quello, un fesso che bastava guardarlo in faccia per capire che come maschio non valeva niente... Intanto lei gli aveva fatto un pompino, a quell'idiota; a momenti, pensandoci, a Dionigi gli veniva duro...
Stava per buttare gli spaghetti quando suonarono e lui corse ad aprire a Karina Brusati, bella più che mai, le guance rosse per la corsa in motorino, felice perché aveva rimediato un cinque in latino.
«E sai perché mi ha dato cinque, quel porco? Perché non facevo altro che accavallare le gambe e lui guardava sotto il banco... occhi da rospo, viscido che non ti dico, quel prof! Però cinque non è mica male, vero?».
«Sempre meglio di quattro», ghignò Dionigi. Non riusciva a staccare gli occhi dalla bocca di lei, meravigliosamente disegnata, di un rosso prepotente e del tutto naturale, una bocca sanguigna, una bocca da... no! questo no, non doveva neppure pensarlo...
Alle cinque del pomeriggio appare la signora Flora Malvolti. Dionigi la guardo con desiderio mentre esce dall'ascensore. Indossava lo stesso abito del mattino, gonna larga a fiori, camicia a maniche corte con ampia scollatura a barchetta, Venne dritta verso la guardiola e Dionigi inghiottì la saliva vedendo come si muovevano le poppe sotto a camicia segno che non aveva reggipetto. Certo non ne aveva bisogno a giudicare da come stavamo su senza sostegno di sorta.
Lei entrò nella guardiola, Dionigi si alzò rispettosamente, mise da parte il giornale.
«Ciao, Dionigi...».
«Buona sera, signora».
«Sono scesa per ringraziarti».
«E di che cosa, signora? Ci mancherebbe altro».
Sei stato gentile e... tempestivo, insomma. Mio marito è geloso da morire. Avrebbe fatto un putiferio... uno scandalo... Se almeno mi dedicasse le attenzioni che si devono a una moglie, ma lui se ne infischia, corre dietro a tutte le sottane di Milano e io... insomma, grazie per l'aiuto, Dionigi. Ecco, queste sono per le sigarette», Dalla tasca della gonna aveva tratto una banconota da cinquantamila e gliela porgeva.
«Oh, no, signora! No assolutamente!». S'era fatto rosso in volto, si tirava indietro, non voleva davvero quei soldi.
«Dionigi, non offenderti, ti prego, è poca cosa», tentò lei, imbarazzata.
«Non voglio denaro da lei, signora! No davvero!».
«Come posso ringraziarti, allora?»
«lo... a me basta averle reso un piccolo servigio, signora». Certo qualcosa doveva trasparire dai suoi occhi perché Flora Malvolti lo guardò pensosa:
«Sei una persona corretta, Dionigi e... sei anche simpatico, oltretutto».
Lui non riuscì a rispondere, nervi e muscoli in tensione, il cazzo che non stava più nei pantaloni e voleva uscirne a tutti i costi...
D'un tratto Flora lo abbracciò, gli stampò un bacio su una guancia e lui la prese istintivamente per la vita. Quando lei volle baciargli l'altra guancia gli sfiorò la bocca e.. si fermò. Un bacio leggero, almeno nelle intenzioni di lei che non voleva far la figura della puttana così di primo acchito. Ma Dionigi l'attirò a sé, le infilò la lingua in bocca e la lingua di Flora saettò immediatamente ad assaporare quella del maschio, il corpo senti la forma dura del pene, e lei si appiccicò tutta a Dionigi, fremeva di voglia quanto lui.
Quando si staccarono erano entrambi senza fiato: Scendiamo in lavanderia, vuoi?, ansimò lei.
Scesero di corsa, dabbasso lei se lo tiro dietro sino alla rientranza del muro, dove c'era la cassapanca.
Quasi inconsciamente Dionigi realizzo che era all’altezza giusta e, abbrancata la donna, ve la fece sedere, poi le andò fra le ginocchia e l'abbracciò di nuovo, succhiandole la lingua, brancicandole i seni sopra la camicetta, godendo a sentirli pieni ed elastici. Le sfilò la camicetta dalla gonna, le mani risalirono sulla pelle nuda e Flora si lascio sfuggire un gemito di desiderio e di piacere quando lui le afferrò le mammelle e prese ad impastarle voluttuosamente intanto che si baciavano. Quante volte, osservando Flora, Dionigi si era chiesto se tra le cosce i suoi peli fossero dello stesso rosso acceso dei capelli! Ora poteva constatarlo. Si inginocchiò, le rialzò la gonna e lei la tenne sollevata perché lui potesse baciare e leccare le gambe, le ginocchia, risalire con la lingua sulle cosce...
«Toglimi le mutandine! leccami bene!!», ansimò in preda alla voglia. Lo aiutò mentre le sfilava le mutandine di pizzo e finalmente Dionigi poté colmarsi gli occhi di quel boschetto fiammeggiante che lei aveva tra le cosce.
«Aaah! si! leccami bene, voglio godere!!», gridò Flora quando le dita di lui, spartito il pelo, le allargarono le labbra della vulva e lui poté immergere la bocca in quella carne deliziosamente rosa, già bagnata di umore. Dionigi leccò come se dovesse trovare tutto il miele del mondo, succhiò come se dovesse abbeverarsi alla fontana della vita e lei cominciò a gridare forte, non riusciva a trattenersi, chiunque li avrebbe sentiti se lui non avesse avuto la precauzione di chiudere la porta.
«Sto godendo! Aaaah! come mi lecchi bene! mi fai morire!! Vengo!! ti godo sulla lingua!! sulla bocca!!!», si strangolava Flora mentre lui, non contento di leccare in quel modo divorante, le aveva ficcato il pollice nella fica e la manovrava in quel modo.
«Oooh!!! basta!!! smetti, non ne posso più!!!», gridò Flora dopo un poco e le cosce le si fecero umide di piacere. Fu un orgasmo che scosse anche Dionigi, non abituato a quelle grida, a quei rantoli, lo scosse al punto che per poco non venne nelle mutande quando si avvide che lei era in preda all'orgasmo!
Adesso lei lo supplicava di lasciarla, gli stringeva la testa fra le cosce nel tentativo di farlo smettere e, finalmente, lui tolse da quel frutto succoso la bocca, le leccò l'interno delle cosce, gliele accarezzo mentre Flora gli artigliava i capelli, glieli scompigliava, gemeva e si lamentava.
«Oh, ne avevo troppa voglia, sono venuta subito.. non ho resistito.. ma anch’io ho diritto a godere. ne ho il diritto.. oh, madonna che piacere!».
Dionigi, però, tremava ancora di voglia e il cazzo gli faceva addirittura male dentro le mutande. Tuttavia si rialzò, abbracciò Flora ancora sbalordita dal piacere, le baciò gli occhi e la bocca, le accarezzo i seni ma dolcemente e tratteneva la passione rendendosi conto che sarebbe stata poca cosa approfittare di lei in quel momento. Ma non poté trattenersi dal dirle parole di desiderio oltreché di riconoscenza perché gli s'era offerta.
«Mi piaci da morire, sai? Sei bella, se fossi tuo marito non andrei di sicuro in cerca di altre donne».
«Mmmmh! Dionigi, mi hai fatto godere tanto.. tanto davvero», rispose lei, flebile, appoggiandogli
la guancia sulla spalla.
«Dammi il tempo di respirare, voglio ricambiarti, farò tutto ciò che vuoi».
«Ciò che voglio è farti godere ancora. insieme a me, se vuoi..»,
Oh, si! si! oh, caro, baciami, e gli cercava la bocca, Dionigi le senti le labbra aride, gliele leccò e, all'improvviso, sotto le sue dita i capezzoli di lei s'inturgidirono, Flora mugolo mentre si baciavano, la lingua di lei era rossa e dolce e gli trasmetteva brividi di piacere ma ne riceveva altrettanti. Le belle gambe della donna si strinsero intorno ai fianchi di Dionigi.
«Caro, fammi ciò che vuoi! Tu non hai goduto! Dammelo in bocca, voglio succhiarlo! »
Era di nuovo pronta e lui esulto. In un attimo aveva abbassata la cerniera lampo e tirato fuori il cazzo che vibrò come un diapason, finalmente libero.
«lo voglio mettertelo dentro, cara! Prima, però, voglio assaggiarti ancora con la lingua... mi piace troppo, vuoi?».
«Oh, si! sì! ma non farmi godere così, mi strazia. mi fa persino sentir male!», lo pregò Flora.
C'era stata una certa strategia nella proposta di Dionigi. Sentiva il cazzo prossimo ad esplodere e non era certo, se l'avesse messo dentro quella voluttuosa nicchia rossa, di durare a sufficienza per far godere Flora. Perciò pensava di poterla portare a buon punto con la lingua prima di infilarle il cazzo. Si inginocchiò ancora e lei si tirò su la gonna e gli si aprì tutta, tra il pelo color del fuoco vivo s'intravvedeva l'apertura del piacere e lui vi applicò le labbra, succhiò il clitoride, poi prese a leccare a lingua larga e gli piacque tanto che smise soltanto per evitare di venir così, di godere a vuoto. Si rialzò e lei con un gemito profondo, lo accolse tra le cosce, gli allacciò le reni con le gambe e, quando la grossa cappella di Dionigi cominciò a strusciarsi contro la fica, gridò, morse la bocca del maschio da fargli male, si sporgeva tutta, ansiosa e tremante per la voglia. Dionigi spinse e fu dentro di lei, non poté trattenere un grugnito lussurioso, come di verro in calore.
«Te lo do, lo senti? È duro, è tuo, tutto tuo! Nella tua fica, Flora!!», gridò anche lui. Poi fu tutto un agitarsi scomposto, si comportavano come lottatori forsennati, l'uno incontro all'altra e facevano a chi ci metteva più forza, Flora già stava perdendosi e navigava sulle nuvole, quel cazzo grosso e duro, soprattutto duro! inflessibile come di legno stagionato rivestito di velluto! furono i suoi pensieri prima che cervello e sensi esplodessero insieme nell'orgasmo, talmente intenso che lei non ebbe neppure forza per le grida liberatorie che di solito esprimeva nel piacere!.
Contemporaneamente a lei stava godendo Dionigi, tenendola abbrancata per il culo, una parte del cervello occupata dal timore di venirle dentro, di metterla nei pasticci, sarebbe stata una leggerezza imperdonabile da parte sua, un ricambiare male il piacere che lei gli dava. Strinse i denti, quando la senti venire capì che avrebbe resistito ancora pochi secondi e continuò a pompare per perfezionare il piacere di lei, una spinta, due tre e... fuori di scatto a sparare getti su getti di roba bianca che gli era restata compressa nei coglioni peggio della polvere da sparo. Le inzuppo le cosce, la gonna, la camicetta e non finiva mai di venire, gli ultimi densi getti cremosi si addensarono sul boschetto rosso fiamma e sulle cosce, Dionigi si sentiva svuotare del seme e insieme delle forze. Quando lei aprì gli occhi ancora velati dal piacere lo vide barcollare stranito.
« Flora... cara... io non ho mai goduto così tanto... mai, te lo giuro, in tutta la mia vita».
Ed era vero, verissimo. Non era possibile paragonare le ragazzotte che aveva avuto, tantomeno Filumena o Margherita, al godimento intenso che gli aveva procurato Flora.
«Oh, caro, tesoro! bel favone mio!», esclamò lei.
«Se tu sapessi da quanto tempo non mi prendevo anch'io un piacere così forte... così... così da non resistere, sai?», sospirò felice. Con un gemito lungo Dionigi si lasciò andare in ginocchio, appoggiò la testa fra le belle cosce rotonde e bianche di lei, le baciò, chiuse gli occhi e lei gli accarezzò i capelli.
«Sei un amore, Dionigi... Senti, voglio confessarmi, con te... Quel tecnico delle lavatrici, sai? Mica lo volevo per levarmi la voglia... solo per fare dispetto al Camillo, mio marito, che non mi guarda neppure e corre dietro alle sgarzelline, a chiunque gliela faccia vedere un po', a tutte meno che a sua moglie. Ma dimmi te, sono proprio da buttare via?».
«Ma cosa dici!», protestò Dionigi, sincero.
«Sai com'è», sospirò lei. «Sempre la stessa minestra, lui vuol sentire altri sapori! E poi, manco ce l'avesse bello e grosso come il tuo! Eh, mica per farti un complimento, sai, ma te ci hai una sberla di cazzo, un accidenti di pirlone che una donna si lecca le dita, si lecca!».
«Allora ti è piaciuto?», volle sapere Dionigi, accarezzandole le gambe.
«e non te ne sei accorto? Ma non dir stupidate, stella! Mi hai fatto morire, mi hai fatto! E, se vuoi se anche a te è piaciuto come dici. possiamo continuare, no? Quando te ne hai voglia basta che mi fai un fischio e scendo giù a razzo, scendo!»,
«lo farei anche tutti i giorni», sospirò Dionigi.
«E io no? Ma sarà bene che stiamo attenti, sai? Camillo è una carogna e poi c'è la monaca di Assisi che se scopre qualcosa del genere è capace che mi fa una scenata di quelle!».
«La monaca di Assisi? E chi sarebbe?».
«Ma la vedova, no? E di una moralità, quella... Va bene che la capisco, non è una fasulla, un'altra al suo posto avrebbe trovato bene da farsi schiavazzare e invece lei niente, fedele oltre la morte. Ma, insomma, io posso sempre scendere in lavanderia, no? Basta che stiamo attenti».
«Staremo attenti», confermò Dionigi e intanto le accarezzava i polpacci ben torniti, le leccava le ginocchia, fini per rialzarsi a leccarle le cosce, a baciargliele, a tentar di mordere quella carne soda..
«Cosa fai, Dionigi, no! adesso il tuo bel palo me lo prendo in bocca io! Eh, diavolo! son mica l'ape regina, adesso tocca me di ricambiare. Vieni su, stella, smetti di leccare se no mi fai di nuovo lo scherzo te..», Lo tirava per i capelli e Dionigi si tirò sa, si baciarono, le accarezzò le poppe sotto la camicetta, infilò le mani nella massa setosa dei capelli rossi, aspirandone il profumo di shampoo delicato.
«Mi fanno impazzire i tuoi capelli».
«Sono il mio orgoglio», ammise Flora. «Lo so che ho bei capelli...».
«Ci metterei dentro il... cazzo!», osò dire lui.
«Ah! il mio porcone!!», rise lei, eccitata. «E mi sbroderesti nei capelli?».
«Si, ma soltanto se tu avessi già goduto».
«Bella stella mia! un amante come te lo vorrebbero tutte, che pensi prima alla donna che a te stesso !», esclamò lei, «Ma adesso tocca a me, poi, quando godi mi sborri nei capelli, sai che shampoo!».
Risero insieme ma brevemente, lei scivolò giù dalla cassapanca, gli si inginocchiò di fronte e gli prese in mano il cazzo, già pronto a metà.
«Porcone mio!!», esclamò Flora, con voce rotta. « Ma guarda che cappella! grossa come una mezza mela! Mmmmh!!» e glielo prese in bocca, lo assaporò, gli accarezzò le palle e Dionigi, guardandole la bocca, se lo senti diventar duro di colpo. Lei mugolò eccitata, cominciò a menarglielo adagio, delicatamente, sfiorando appena con le dita la verga rigida, leccando appena la cappella e alzò gli occhi verdi a spiare l'effetto sul viso di lui. Dionigi le tuffò le mani nei capelli, le spinse il cazzo sino in gola ma subito lo ritirò, lasciando a lei l'iniziativa. Flora cominciò a succhiare e Dionigi si sentì portare rapidamente in cielo e veleggiava sopra le nuvole. Nessuna mai l'aveva succhiato con tanta passione e con simile capacità di condurlo immediatamente sull'orlo del piacere. A un tratto lei smise, lo fissò con occhi accesi, sembravano smeraldi rilucenti ai raggi del sole.
«Dimmelo quando stai per godere, voglio che mi sborri nei capelli!».
« Ma... io... io voglio che goda anche tu, prima...»,
replicò lui con voce rotta.
«No! Farai come ti dico!». Era un ordine perentorio, Dionigi sospirò, lei gli prese nuovamente il cazzo in bocca e ricominciò a succhiare. Qualche secondo, poi l'avvertimento strangolato di lui:
«Mi fai venire!! Guarda che vengo!!». Immediatamente Flora smise di succhiare, gli prese in mano il cazzo e cominciò a menarlo svelta, al tempo stesso avvolgendolo nella massa dei capelli setosi con la mano libera.
«Ooooh!!! Così!! così che vengo!! Aaaaah!!!», gridò Dionigi, stravolto dal piacere. Esplose con un getto formidabile che s'innalzò per cadere sui capelli di lei. A quel primo ne seguirono altri, in rapida successione, quale più lungo, quale più denso e Flora se ne trovò i capelli zuppi, lo sperma le colava giù dalla fronte sino alla bocca, le scendeva denso e cremoso dalle tempie sino alle guance e lei continuava a menare quel cazzo che le sussultava in mano...
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